Canzoniere inutile – Samuele Editore 2010

FIL2518


 
 
 
CANZONIERE INUTILE
 
Alessandro Canzian – prefazione di Elio Pecora
 
 
 
 
Notti e giorni al riparo dall’esistere.
E sfinimento seme riverberi
d’abbracci…
F. Benzoni
 
 
cioè la verità che forse salva
anche se non consola.
G.B.Squarotti
 
 
Tu ora sarai in casa, avvinta
ai riti domestici o sottratta da essi
come spero, ti penso sul letto…
L.Aliprandi
 
 
 
 
 
DA UNA PENISOLA…
 
 
in penombra, altra, un velcro.
Un’eco che rimbomba nella stanza.
La solitudine di vivere è un silenzio,
è uno sguardo, invano, un gesto
sbrecciante tra i rami e le grondaie
d’un maggio che irrisolve -ruggine
mutilata dentro al cuore-. È
un riverbero di capelli alla rinfusa
senza senso abbandonati sulle spalle.
 
 
 
 
 
FRAMMENTI
 
 
Cos’altro era il cane al tuo braccio
se non scheggia di vita
-di pioggia sparuta, di luna
che presagivi a venire-, una notte,
un falso orizzonte
d’uomo o guerra che sia.
 
 
 
 
 
Della mia infanzia ho il ricordo
d’una spilla arrugginita,
e d’un ragno di ramaglie
alla deriva -eri tu
la troppo assolta-, e d’una vita
come colpa, troppo mia.
 
 
 
 
 
Una schiuma di sera sciaborda
in nebbia di fari, in tronchi
agglomerati ai tuoi sguardi,
come storia di uomini sfatti.
La vita è principalmente attesa,
da questo esilio il Dio.
 
 
 
 
 
Ma l’uomo cos’é? La querela
in fondo è sempre questa: può essere
l’uomo simile ad un carro
macerato da uno sguardo? -frattanto
la scheggia d’un gatto salta
contro il muro d’una notte-.
 
 
 
 
 
E nel gesto attonito d’esistere
una stufa accesa riscalda
appena il vuoto che ci riempie
-non che l’atto possa salvarci
nella sua breve cecità
d’una notte senza parole-.
 
 
 
 
 
Spesso mi chiedo perchè scrivo,
perchè spero di lasciare
una così labile
ombra di me. E sorrido.
Sorriso di quell’amaro sorriso
di chi ha un grande vuoto dentro.
 
 
 
 
 
Il giardino che dietro la casa
ghiacciava un poco tra i radi
filari di neve
e i cachi -distanti- m’era
una chiara immagine del male.
Un gatto che oltrepassa le scaglie
d’una siepe, sospinto dalla fame.
 
 
 
 
 
Questa vita disserrata ha il senso
della cagnetta smagrita che a lato
della casa s’avvolge
di gelo ogni notte.
E che a un piccolo straccio s’attorce
come se fosse il suo mondo.
 
 
 
 
 
La crepa sul muro che divaga
nella stanza
ove tanto soffrimmo -perchè la vita
è da sempre sofferenza- ritorce
se stessa alla mia sera.
E fa il mio cuore questa scheggia
che si spegne sulla cenere.
 
 
 
 
 
L’orologio che mi regalasti lo misi
tra le cose che non rividi
più -sebbene l’avessi
per tutto il giorno al posto-.
Tale è la vita. Nemmeno la grata
del cuore vi sfugge.
Piano anche il tutto si stinge.
 
 
 
 
 
QUASI UN CANZONIERE
 
 
Sette giorni t’impiegasti a decifrare
il mistero della vita -cos’altro
di quei giorni di cancro
se non l’amara consapevolezza
che abbiamo d’essere alla luce?-
 
 
 
 
 
La tua morte non fu tragica né dolce.
Una linea estesa che si spezza
nel lungometraggio d’un orizzonte
vano. Pochi gesti, pochi versi a indovinare
una fine inevitabile.
E di tutto il resto solo neve, interminabile.
 
 
 
 
 
È forse questo il significato della vita.
Uno svanire quieto tra le cose
a sé più care, uno sfibrare il resto
disperso del pensiero -inutile,
inatteso, con nello sguardo un gesto
pieno d’amore- per non attendere
più nulla dopo il male.
 
 
 
 
 
La notte s’esaurisce tra le sponde
come un vento di tramontana. Nere
gocce simili a rugiada
s’intersecano al mattino, ai lati
più postumi dell’alba -che non è d’amore
che sopravvive questo mondo,
ma nemmeno d’odio-.
 
 
 
 
 
E non ti dimentico, casello dopo casello,
che uscire dalle cose mi è un riemergere
a te, al tuo sorriso, al tuo sereno
stare come abbandonata sul divano
imprescindibile d’un tempo -la morte
non t’ha sfiorata che un istante
solamente, per poi rinascere
in questo mio viaggio spetalantisi di luglio-.
 
 
 
 
 
Tra il vento e le crepe d’un inverno
una rondine che arriva. È tutto finito
ti dice un cielo che non scroscia, eppure
non può finire ciò che esiste
quasi in eterno, non la pietra arrovellata
da una cupa umanità, non la forma
di memoria che infittisce nella storia.
Perché finisce l’uomo, non la sua penombra.
 
 
 
 
 
IN VIAGGIO
 
 
Pare impossibile che di te resti
meno del tutto, dice il poeta.
Un insetto radente sull’acqua,
qualche fascina
di peli, pochi resti insomma.
Eppure la memoria non basta,
quieto l’insetto si rinserra.
 
 
 
 
 
Rimpiangerò il tuo sesso, e altro,
come chi non vuole il desiderio
se non per trarne qualche spina
nel roveto dissecato
che è la vita -perché il bene
non sempre serve
a rendere l’uomo più felice-.
 
 
 
 
 
Ma di quest’infelicità non parlo.
La scusa di vivere non basta
oltre una musica e una tenda
smangiata da memorie
in festa -una muffa, uno strappo
distratto, in fondo è quanto
necessita l’anima a ricordare-.
 
 
 
 
 
Una mosca, un capello, una eco
atterrita tra le gronde e le perline
d’un colloquiare senza fine
-la tenda e dopotutto un gesto
quasi privo di saluto-.
In fondo è proprio il mondo
il solo bene che non abbiamo.
 
 
 
 
 
Un frusto vai dicendo ed una luce
non dissimile a un oscuro. Altro
non chiedo dell’amore, del vuoto
che tardivo resta ai vasi
quando assuefatti i fiori dalla vampa
li getti insieme al senso
della vita per evitare che ristagni.
 
 
 
 
 
UNA PARENTESI
 
 
E così esausta a lato parlottando
tra le cartilagini d’un vento
-le unghie spezzate dalla nebbia-
inverosimile ammetti che la vita
non ha il senso d’una riva, ma più
d’un guado, raffermo, d’uno stagno.
Inverosimile ammetti che anche Dio
può essere triste quanto un uomo.
 
 
 
 
 
Non ricordo la pace d’uno sguardo.
Né ricordo la forma del tuo bacio
docile ed irato -greve, e caro- fino
al fondo della bocca senza voce
che s’asciuga per troppo amore
-contro un vento, denso, e dolce-.
La solitudine è uno sguardo che rivela
nel sesso ogni sua inutilità.
 
 
 
 
 
Ti leggo, tra le tue ciglia di settembre
simile ad un graffio inferto al cuore.
Tra le carte rimbrecciando una tristezza,
una foschia sincopata alle mie albe
di tenebra alla bocca, la tua, di donna
leggerissima. Un canto -un tumulto
discrostato- vorrei fosse il tuo profumo.
Ma il disamore è la mia unica certezza.
 
 
 
 
 
UN TARDO POMERIGGIO…
 
… con la grandine negli occhi.
Potessi così discioglierne un sorriso
e berne dal vuoto d’una bocca
il succo -il buio sfolto d’un giardino
tra rane e rondini essiccate-, il resto
della vita sfarebbe in un’immagine
scarna, scabra e appena amara,
e solo un poco stinta dalla pena.
 
 
 
 
 
IN UN ABBRACCIO…
 
…di pioggia abbandonata in una sera.
Guancia a guancia, le mani
tra le mani asserrate nella voglia
postuma di comprendere un sorriso.
Muta e gerbida non resta, che tra
le ciglia un segno, una dolcezza.
Nei tuoi occhi ruvidi una crepa,
al di là del fondo, una tristezza.

 
 
 
 
 
CANZONIERE INUTILE
 
 
Ombre di luce che d’aprile, in un
vento, si spezzano di gelo.
È destino il traliccio della luce
che rinnega i suoi fuochi d’artificio
appena implosi all’orizzonte.
Non altro delle fronde, che un
flash mutilato tra le ore, un
pianto,una nebbia tenera di notte.
 
 
 
 
 
E queste sono le tue albe, che
meno inutili di me, ti porti dentro.
Nell’ordine disciolto del tuo corpo
dolceamaro di sole che si spegne
attardandosi a un tramonto
-un più vasto vuoto, nel mondo-.
Ma non risolve l’eco la sua pioggia.
L’umido che nell’aria ci discosta.
 
 
 
 
 
La storia che privatamente assente
ci rimase incagliata nella tenda
di notti e giorni insufficienti
a resistere alla bora -Trieste
era lontana ormai da tanto-, fu
a noi eco, amore in mezzo al vento
di un’inutile reazione, al tempo.
E rinunciammo a sopravviverne.
 
 
 
 
 
È nel lungo soliloquio delle carte
di versi che non ricordano se stessi
-sarebbe inutile, in fondo-
la certezza che esistere non vale
oltre il fossato amaro di cemento
e gambe, di mani e assalti
assottigliati dall’amore, senza pace.
Uno sguardo, non altro delle strade.
 
 
 
 
 
Ed il mondo non ha più senso.
Il suo vasto sciabordare tra gli scogli
come appare inutile nel fondo
del fondo dei tuoi occhi, belli.
Pari a una grammatica d’addio.
Ma la parola non dona più salvezza
quanto il lamierino dei miei versi
rigettati da un insetto, filiale.
 
 
 
 
 
Non altri che tu, in quest’assenza.
E la tenerezza d’averti in un’attesa
che pare ritornare. Il bene
e il male sono tmesi, per asindeto
una tua voce. E ti chiedo
in una sirena di vuoto avversa
quale ne sia il senso, il gesto, quale
il motivo di così tanto inverno.
 
 
 
 
 
Il tempo scorre e tu dispari, dolce.
E ti vedo assolta tra le ultime
e più care cose del tuo mondo
-la cucina, il letto, il divano sfatto
del soggiorno invano- quasi tutto
fosse un grumo da capire, un sogno.
Ma questo è il mondo, amore, il tuo
nel mio così infelice.
 
 
 
 
 
La vita è un tempo che ridonda
sempre pari nel suo vuoto. Così tu
dolce apparsa in una pioggia
d’una sera inattendendo. Perché il
vuoto non pesa più del pieno
quando togli le scarpe e già sappiamo
che significa l’amore.
 
 
 
 
 
È tutto inutile questo mio canto tra
i tuoi capelli intramontanti e
il loro dolce e aspro misurarsi, alti
e fondi come parola che ruscella.
Piano mi dimentichi e rivivi
le tue estati tra la gente ed i conigli
-mentre stesa sul divano t’abbandoni–
E ridi, o almeno così ti penso.
 
 
 
 
 
E roso dallo sconforto, dall’ebbrezza
di un giorno rivederti, ritornando
a versi che riecheggiano se stessi.
A malapena il tuo volto tra i lampioni.
Sarà un gesto, forse due, ciò che eterno
resta a dissipare la memoria, l’anima
cosiddetta. Un bacio tra le palpebre,
una carezza soltanto o forse niente.
 
 
 
 
 

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