Segreto visibile

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Ieri sono andato all’inaugurazione di una mostra in uno spazio espositivo udinese che da qualche tempo si sta facendo notare per originalità e rigore delle proposte. Lo spazio MAKE di Maria Da Broi. Devo dire che ne sono rimasto affascinato. Basti leggere l’abstract del progetto:

 

Segreto Visibile

Il progetto pone l’attenzione su una delle strade udinesi più nascoste, più segrete, più antiche e dense di storia ma anche più dimenticate e abbandonate. È uno spazio urbano avanzato rispetto allo sviluppo della città contemporanea, una sorta di spazio di risulta. Apparentemente è così. In realtà, negli ultimi tempi, la vita del vicolo si sta riaccendendo attraverso una autorigenerazione i cui segnali sono percepibili agli occhi più attenti. Una rigenerazione che trova linfa dalla sua stessa identità fatta di segretezza, storia, poesia, di attività artistiche e artigianali nuove e antiche. Una rigenerazione che va aiutata e alimentata attraverso l’individuazione di un nuovo ruolo urbano. La sua storia, la sua dimensione e la sua conformazione urbana suggeriscono l’ipotesi che possa diventare un primo laboratorio in cui testare le potenzialità del tema relativo al rapporto tra arte contemporanea e città storica. Un laboratorio d’arte contemporanea, uno spazio collettivo aperto e segreto dove possano misurarsi, sfidandosi, la bellezza della poesia dell’arte e della memoria e la bruttezza dell’abbandono, dell’oblio e della miseria umana.

 

Vicolo Sottomonte

È un vicolo antico, segreto, denso di storie, dimenticato. Un vicolo dove i profumi di creme e di vaniglia si scontrano in duello, nei mattini d’estate, con i cattivi odori prodotti da chi decide di passare le acque li. Un vicolo dove qualcuno scrive e affigge poesie e qualcun altro, mosso da chissà che paturnie, le strappa. Un vicolo antico che ha storie di luce e dove passano segretamente ombre serali evitando la strada principale. Un vicolo segreto dove i ragazzini vanno a baciarsi. Un vicolo segreto, un segreto campo di battaglia dove si fronteggiano la bellezza e la sciatteria.

 

Il fatto che l’arte si misuri sia con la bellezza sia con la bruttezza è cosa assolutamente affascinante e credo addirittura prioritaria per chi oggi fa arte e/o letteratura. Perché il concetto di bellezza travalica inevitabilmente ciò che è semplicemente bello e assume in sé anche la definizione di brutto. Un po’ come il concetto di Dio che, se in maniera superficiale lo consideriamo la massima espressione esistente di amore e bontà, in realtà include anche crudeltà e ferocia (il Dio veterotestamentale ha come definizione prevalente la giustizia non la bontà, che Cristo stesso non rinnega ma integra con quella di amore che, a ben vedere, è molto più ampia e complessa della nostra sciatta definizione semplicistica e buonista).

In questo progetto Segreto visibile (attuato dagli artisti Ba Abat, Dmav, Alfonso Firmani, Paolo Furlanis, M. Elisabetta Novello, Anna Pontel, Carlo Vidoni) l’arte è possibile proprio in funzione della bruttezza dell’abbandono (dall’abstract) e ne rimane in qualche modo legata. Come a dire che il buio dà alla luce la possibilità di essere ma la luce non tradisce il buio evidenziandone anzi un significato specifico. Ed ecco in questo significato il concetto più ampio di bellezza. In realtà non si sta dicendo nulla di nuovo ed è un po’ la classica scoperta dell’acqua calda ma molto spesso l’acqua calda rischia di non essere così evidente. Sto pensando ad esempio ad Adorno quando dice: L’arte non si risolve nel concetto di bello ma, al contrario, per soddisfarlo, ha bisogno del brutto come negazione di quello. […] Ma il fatto che l’arte abbia la forza di racchiudere in sé ciò che le sia contrario senza recedere neanche un po’ dal proprio anelito e anzi trasforma quell’anelito in una forza di tal genere, è cosa che affratella il momento del brutto alla spiritualizzazione artistica. Questi artisti insomma non hanno abbellito il vicolo (si veda Carlo Vidoni che colora d’oro un pezzo di tubo, un sanpietrino, o Anna Pontel che installa uno specchio spezzato in 362 frammenti che riflettono il vicolo stesso e chi si frappone in mezzo, o Alfonso Firmani che installa dei libri troppo alti per essere letti ma abbastanza alti per far guardare le parti alte del vicolo stesso) ma ne hanno cercato e risaltato le fessure, gli interstizi.

Questo concetto di bellezza si lega al concetto di rigenerazione indicato sempre nell’abstract: la vita del vicolo si sta riaccendendo attraverso una autorigenerazione i cui segnali sono percepibili agli occhi più attenti. Una rigenerazione che trova linfa dalla sua stessa identità fatta di segretezza, storia, poesia, di attività artistiche e artigianali nuove e antiche. Sapendo poi che quel vicolo specifico (vicolo Sottomonte di Udine) fu uno dei primi serviti dall’energia elettrica, appare subito chiaro quanto questa rigenerazione prima spontanea, poi colta e spinta dagli artisti senza però snaturarne la realtà, punti non tanto a una ridefinizione quanto a una riscoperta dell’identità non solo del vicolo ma di chi vive il vicolo, di chi instaura una qualsivoglia relazione con esso.

Questa rigenerazione, questo scavo nella realtà porta a delle riflessioni conseguenti che a mio avviso non sono di poco conto. Ne individuo sostanzialmente due (anche se possono essere molte e molte di più).

La prima è il concetto di non-luogo di Augé (ne avevo parlato in relazione alle opere di Rachel Slade) in quanto il vicolo abbandonato può essere bene inteso come non-luogo, ex-luogo che ha perso la sua identità (ed è in fondo il pericolo della nostra contemporaneità questa trasformazione di luoghi in non-luoghi). Ancor più diventa un non-luogo se prendiamo atto delle frasi successive di Augé: Questa definizione di non luoghi ha però due limiti. Da una parte, è evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un supermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo. Stiamo in buona sostanza parlando del concetto di autorigenerazione che sta vivendo il vicolo. E in questo gli artisti ci danno una lezione fondamentale mostrando e dimostrando che l’abbandono di una storia e identità non significa necessariamente la loro definitiva perdita. L’azione artistica, quando vera e onesta, ne può far riemergere i frammenti storici. Nulla va perso completamente (e se il vicolo non è quindi un non-luogo perchè ha trattenuto parte della sua storia, quanti altri non-luoghi che in realtà non lo sono abbiamo tra le nostre strade?) e l’arte contemporanea può essere un’operazione storica, di rivalutazione della memoria, dell’identità, escludendo quindi ogni rivoluzione ma scandagliando quanto è veramente perso e quanto esiste ancora. Anche se è fondamentalmente un qualcosa di nascosto, un segreto (visibile).

L’altra riflessione, che ho già abbozzato qualche riga fa, è sull’azione degli artisti sull’identità (che è comunque la sua storia) del vicolo. Spesso siamo abituati, almeno in letteratura, a cercare un io interiore nella relazione con noi stessi, con il mondo inteso come natura, nelle relazioni con gli altri, con la Storia. Andare a ricercare l’identità residua di un vicolo, se fatta dagli artisti (quindi prescindendo da una semplice operazione tecnica), rischia veramente di porre l’attenzione sull’identità di chi ci si rapporta. Perché inevitabilmente io faccio parte di una storia e questa storia mi identifica. Ma parte della mia storia l’ho dimenticata. Parte della mia identità l’ho smarrita. Sottolineare alcuni frammenti di un vicolo diventa un sottolineare alcuni frammenti del sé (in questo lo specchio franto diventa straordinario). Ricercare attraverso la rigenerazione artistica l’identità di un luogo significa inevitabilmente riappropriarsi della propria identità. Riscoprirsi. Rigenerarsi.

 

Un progetto assolutamente riuscito e che domenica 18 dicembre vedrà anche alcuni poeti confrontarsi con il tema (Maria Milena Priviero, Rachel Slade, Stefano Montello, Mara Donat, Ilaria Boffa). La mostra sarà visitabile fino al 6 gennaio presso il vicolo Sottomonte di Udine e lo spazio espositivo MAKE (via Manin 6/a). Qui tutte le informazioni.

 
 
 
 

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