Volgarmente detta malattia del dubbio – Umberto Piersanti

piersanti

Alcuni giorni fa mi ha telefonato un ragazzo che ho conosciuto qualche anno fa. Un ragazzo intelligente, di quelli che fanno del proprio entusiasmo un motivo di sacrificio per proporre Arte e Poesia. A distanza di otto/nove anni circa mi ha detto che un suo progetto ha preso piede e continua, e che per l’anno prossimo vorrebbe (e qui ci vogliono tutti i miei complimenti) lavorare su Pasolini legandolo a Federico Tavan. Ottima ottima idea, che auspico veramente di riuscire ad aiutare e supportare.

Ma più di questo mi ha colpito il feedback che questo ragazzo (pugliese) ha avuto di Tavan: “un uomo che ha avuto le mani nella merda, un vero poeta”. Questa frase, assolutamente vera e che tutti i poeti dovrebbero avere sempre bene in mente, mi ha ricordato un vecchissimo libro di Umberto Piersanti.

Poeta che non ha bisogno di presentazioni, edito più volte da Einaudi. Ma c’è un suo volume, L’urlo della mente, degli anni ’70 (per la precisione 1977, quando sono nato io) edito da Vallecchi che esce un po’ dai canoni del poeta e che lui stesso ha definito “il mio libro più sincero, il più immediato e il più diretto, ma anche decisamente il più brutto. L’oscurità che copre la mente intralcia anche il dettato”.

In questo momento invece mi sento di rivalutare e un po’ riabilitare questo volumetto che di brutto non ha nulla, se non la difficoltà di una mente che diventa difficoltà del verso. Che non mi appare sgraziato ma all’unisono con la malattia del dubbio.

Più di tutto di questo libro che ha ormai 36 anni vorrei sottolineare la discesa nell’oscurità che crea la bellezza della necessità poetica, dello scrivere, della sintesi umana. Non c’è umanità senza fango, senza vomito, senza lacrime. Forse anche senza quella bionda, dopo aver / parlato mi bacio quasi improvvisa / nella fronte. Non è una legge universale né un sine qua non, ma l’esperienza umana vera e intensa è una delle componenti essenziali della grande poesia.

Quella che resta nel tempo perchè dice qualcosa. E salva l’uomo.






All’origine


Colui che era presso la Croce

generò questo male

poi vennero parole stampate

del mio tempo

medioevo prossimo venturo

e fu l’assurdo.


Il sudore era

sulla linea della fronte

la notte atroce

spesa nei soprassalti

l’amica mi trascinò

stupito

rotaie infuocate e case bianche

vera la diagnosi

spietata del medico dei pazzi

«volgarmente detta malattia del dubbio».


L’Assurdo era nel ritorno

e nelle cose, nei volti

non allontanò l’odore acuto

di cloroformio e d’altro

dai cessi della clinica serrata

né i gesti, le parole

i farmaci del primario, i medici

gli infermieri

non l’affetto sconvolto, impaurito

di mia madre

e gli altri

che vennero tra il verde

della mia stanza tragica


maggio erano papaveri e lupini

dalla mia finestra

era la vita irrimediabilmente altra

di una semplicità perfetta

ora solamente riconosciuta

e spaventosamente persa


L’amore percepito

in totale impotenza

in smisurata nostalgia

una ragazza del tempo differente

strappati i papaveri dei campi

venne e li depose nella stanza.


(luglio 1975)






Se questo è un uomo


Forse a Mathausen

qualcuno rinunciò

anche alla sua buccia di patata

ancora c’era uno spazio

e fu scacco

per la Macchina atroce

irreversibile l’essere

uomo.


Sono entrato nei luoghi

chiusi della pazzia

e il cibo era buono, gli inferieri gentili

ho saputo però

cos’era il non essere uomo.


Quando è atroce

l’urlo della mente

l’assurdo meccanismo

dei neutroni

accascia te

sulle sedie, ti sbatte

nei corridoi, sui letti

l’estrema libertà è già perduta

la vittoria totale

è dell’Assurdo.


Non è vero

perdio, che tutti

conoscano il dolore

e a ciascuno la sua croce

certo è la frase più filistea.


Io dico che

le sofferenze d’amore

sono letteratura

e basterebbe un’ora

di questo male

signori, per vanificare

tutte le vostre fregnacce esistenziali.


Io vi chiamo signori

tutti quanti

tranne i compagni

i più sperduti delle nostre stanze

voi che siete stati risparmiati

voi che non avete mai avuto

i meccanismi atroci

nel cervello.


Forse la libertà

sarebbe stata

quella del dio selvaggio

del suicidio

ma una paura sopravvenne fisica

e metafisica.


Forse chi si uccide

non ha paura

forse anche per questo

è necessario che la sofferenza

sia oltre misura.


Ho conosciuto tempi

e luoghi

dove è impossibile

l’essere uomini.


(luglio 1975)






Vercelli pensata dopo il sogno


Il sogno di questa notte

trasformò i luoghi

assurdi nell’unica regione

splendidi, indecifrabili

ma paurosi.


Vercelli nel sogno

era differente

un ospedale immenso di metallo

triste nei cieli fuligginosi.

Questa città l’ho conosciuta

solo nel male

né ci fu mai la sosta

tra le pinete o nei luoghi

antichi del mattone.


Era il terrore oscuro

l’oggetto assurdo

che m’aggrediva

fin nelle sale

misere della tv

nel corridoio lungo delle mie ore.


Dalle donne si era

risorosamente separati

questo era indifferente

per il mio male.


Ho sperimentato qui

l’atroce impotenza della scienza

il meccanismo assurdo non fu intaccato

con i tubi stretti sulla mia nuca

squassandomi con le febbri artificiali.


Non conoscevo orgoglio né rivolta

io, che tra le lotte sono cresciuto

e seguii il professore sbigottito

quando m’espose davanti agli studenti.


(agosto 1975)






A Bologna nei giorni dopo il gelo


Azzurre sono le ore

nell’Appenino del tempo differente

in questi luoghi diversi

d’Abruzzo perduto nell’arcaico

e ritentare le orme favolose

dell’epoca che tu

prima del male


azzurri erano i giorni

primi dopo il gelo

tra i vetri della clinica

a Bologna.


Era il mattino

l’assemblea inutile dei malati

quasi niente ci separava

dagli uccelli dei prati pettinati


primavera atroce

che trascinavi ancora

nei prati miseri del piazzale

i giorni interminabili della sofferenza.


Le mense lunghe, i volti

presi dall’assurdo

c’era un compagno difficile

che piangeva forte e non mangiava.


M’ero abituato alla flebo

che non entrava

non era questo il guaio

ma la sua ridicola impotenza.


Io non voglio descrivere

i compagni

per quanti fosse atroce

non lo conosco

ma s’era in luogo grigio

della sofferenza.


Mia madre

era vicina al letto

dove mi serravo

fin dalle ore prime

del pomeriggio, la difesa sola

che mi restava

io speravo nel sonno e nella sera.


Alcune ragazze

facevano lì la loro pratica

una

bionda, dopo aver

parlato mi baciò quasi improvvisa

nella fronte.


Primavera azzurra

di Bologna

per me eri solo

i giorni dell’assurdo

il tempo atroce

e disperato il tentativo

d’essere uomo.


(settembre 1975)






Le margherite gialle dell’autunno


Le margherite gialle

dell’autunno

dai treni giù per i greti

nei giorni più chiari

di settembre

da Cividale

alle piane intiepidite

ormai di Lombardia

era la fiamma chiara

d’una possibile riscossa

il saluto lungo

nel viaggio ritentato

il laccio sottile

d’aria di colori sul trapasso

per un tempo

oltre lo stupore

fugace

di fiori e degli azzurri

ancora sanguinosamente

differente.


C’erano sempre queste

margherite

sotto i torrioni

verso i mattoni vecchi

della casa isolata di Mengacci

e ancora più tenaci per la nebbia

nelle campagne

d’Emilia

e della Romagna.


L’assurdo non ha

intaccato i luoghi

mentre sbatteva me

negli edifici serrati

e nei piazzali precisi

dove con i compagni non previsti

s’era stroncati dalla sofferenza.


Da tempo immemorabile

conosco l’indifferenza

al male

non dico della natura

nei ritmi e nelle vicende

qualcuno già lo ha scritto

e definitivamente

ma questo è anche

nei segni

nelle presenze

a me sacre

del tempo differente.


Non ho rivisto le margherite

nei giorni

quando più atroce

era l’urlo della mente

fiorivano ugualmente

oltre la porta serrata

della pazzia

riservate impassibili

ad ogni altro.


Ma lo prendo

ugualmente come segno

teso nella Paura

che m’avviluppa

questo giallo bagnato dall’autunno

segno di forza mite

della tiepida gioia

della vita.


(ottobre 1975)






La parola


Un giorno era la parola

per la lotta nei banchi

dell’assemblea e sulle piazze

per gli incontri lunghi con gli amici

così come nei treni, negli incontri

brevi dei caffè, delle strade e

dei ristoranti, era la parola

la tenerezza sotto i lampioni

tenace per i giochi splendidi del sesso

e dell’amore, sgombra

nei risvegli morbidi dopo il coito

in essa era riposta la mia forza.


Ora il mio male viene

dalla parola, un mondo dove non sai

quale delle parole innesti

feroce il meccanismo e non è

formai ormai ma segno

il più pauroso della mia follia.






Il tedesco


Com’era

nella clinica scialbata

il modesto edificio

verde nelle persiane serrate

d’un paese minuscolo e le colline

ampie marchigiane

questo dal volto forte

e lo slancio fiero della figura

negli occhi azzurri, nei capelli rossi

questo come l’antico guerriero

di Germania

il cavaliere

d’una fiaba antica medioevale?


Era con me

copagno dolente nella stanza

serrata presso le foglie

ampie del piazzale

ed io gli parlavo del mattino

gli dissi della vita

e dell’universo.


Uno sclerotico un giorno

entrato, ci pisciò nel muro

ma non aveva disgusto

della bava, dei flaccidi compagni

nella mensa.


Non so con precisione

che male avesse

un altro assurdo

negli oscuri giorni dell’assurdo

era pe me

il vederlo, in questo luogo

senza un’ombra di male

che lo incrinasse, senza un’offesa

minima alla bellezza.


Ma l’ho visto piangere

nel suo letto, la suora mi

disse che lo faceva

lei si sentiva male

a questo pianto lungo, senza motivo.


(ottobre 1975)






Il domenicano


Cercò di scappare

poco dopo che

nella clinica era stato accompagnato

ed era il viso

incredibilmente più sereno

fra tutti i rinserrati

nel luogo grigio.


All’inizio era grande

la mia diffidenza

per quell’abito bianco

e gli altri segni della religione

un rischio grave

per il meccanismo atroce.


Poi mi parlò

nei tavoli tristi

delle mense e si fermava

a lungo nella mia stanza

nelle ore del dubbio più feroce.


Niente manifestò

del male che dentro

con tutti gli altri

lo aveva rinchiuso

quella fuga soltanto

restava di lui

la cosa strana.


Uno dei più tenaci

nell’aiuto

non era il suo esser prete

quello della paura

ma un modo che anche

allora mi convinceva

una presenza generosa

allora quando

come tutto del resto

la sua impotenza

era

quasi totale.


(ottobre 1975)






Viaggio


Da ragazzo ero venuto

nel tudertino

e scrissi sulle campagne umbre

dei brutti versi

ché incontrai una ragazza

presso la chiesa vecchia

ricordo anche

una strada non asfaltata

l’odore di terra

dopo le piogge colorate,

erano giorni

di stupore, e c’era il bacio

la sacrestia, la cucina

enorme con le nipoti

ed era questa delle prime

inquiete fughe d’adolescenza.


Altri e più lunghi

viaggi sarebbero seguiti

non certo baci come quello

buono per racconti favolosi

e inarcati corpi sulle

specchiere nelle stanze

sbiancate degli alberghi

anche se intorno circondati dalle pievi.


Stagioni entrambe

della memoria

nello sbigottimento della

gioia, del sesso

nei giochi luminosi.


Quando con la compagna

pacata di questi giorni

ho ripassato i rossi delle viti

e gli scotani accesi dell’autunno

ho rivisto la piazza con la guida

controllate le colonne ad una ad una.


Situazione che ugualmente

mi piacerebbe, anche

con altri occhi

si può guardare,

né mi disturba

i trenta superati.


Io non sapevo

però il male che mi toccava

il meccanismo duro anche

stamane, mentre noi

si saliva per le viti.


Io non sapevo che

questi luoghi

lieti più che ciascun altro

spazi d’adolescenza

della memoria

dal mio male

anch’essi

non risparmiati

per l’ossessione tenace

che m’accompagna.


(novembre 1975)








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