Histoire d’O – 2012

prova7

Ты, тихая, сияешь предо мной
Anna Achmatova

 

I

 
 
 
                        E poi
è quando più ti manca il fiato
che la ami. Quell’immagine

inconsistente che fa memoria.

            Quella goccia di saliva
– dalla tua bocca alla mia bocca –
che ti manca e che sublimi
col cibo o la Grafenwalder.

Ma che non passa dal cifrario
           delle cose dette e non andate.

 
 
 
 
 
 
È pericoloso dirsi amore,
dirsi il mio corpo è solo tuo.

Perché poi uno ci crede
creandosi un’iconologia dell’altro,
quasi un dizionario dei dettami,
                       delle carezze.

E poi arriva un insetto qualunque
che si appoggia sulla pelle,
                       e non è più tua.

 
 
 
 
 
 
Dicono la poesia sia grande
           quand’è necessaria,
quando te la chiede il mondo
– in realtà lo dice Guido ma
è come lo dicessero tutti –.

Fa un po’ ridere questa presunzione.

Soprattutto se per scrivere hai
bevuto birra doppio malto e hai
                              pianto tanto,
ma non lo puoi dire.

 
 
 
 
 
 
                        Sai, potrei dirti che
ho provato un male inimmaginabile
a sentirti andare via.

Che ho pensato anche di morire
nel banale desiderio
           di farti un po’ del male.

O potrei dirti che sono felice
                       che tu sia felice,
ma sarebbe una bugia.

E allora non ti dico nulla
           per non sbagliare ancora.

 
 
 
 
 
 
Che poi siamo stati fortunati.

Che se t’innamoravi di lui che
avevamo già una casa due auto
un criceto che scappava dalla gabbia
un qualcosa di preso in prestito e
non tornato, qualche figlio
                       – non credo solamente uno –
pensa che guaio sarebbe stato.

Così, almeno, non abbiamo fatto soffrire
                                   quel criceto.

 
 
 
 
 
 
Oggi ho visto un uomo che
                       sembrava felice.

Usciva dal lavoro di corsa
                       col sorriso slanciato.

E mi sono chiesto se anche lui
           torna a casa in questo modo.

Dove tu lo aspetti, le calze
prese all’Adriatico di Portogruaro
                       e il reggiseno sotto
col brillantino luminoso in mezzo

– tutte cose che abbiamo comprato
insieme, ma tu non gliel’hai detto –

                                   A volte
siamo così banali nei pensieri.

 
 
 
 
 
 
Oggi ho voglia di stare male.

Di ricordare i pomeriggi in cui
dicevi «assolutamente oggi non voglio
                                   fare l’amore»,
e si finiva col gioco delle ombre
                       – l’uno dentro l’altra –
senza nemmeno accorgersene.

Le cose migliori vanno fatte
                       parlando d’altro.

 
 
 
prova4
 
 
 
Ieri ho incontrata una presunta
                                   poetessa,
poi tu mi hai scritto che sei triste.

Era da tanto che non ti sentivo.

E ho pensato a quel mio insegnante
del Liceo, diceva «Ragazze se il
vostro ragazzo dice che siete
più belle quando piangete
                state attente,
cerca solo un pretesto
                 per farvi male».

E allora mi chiedo se anche io
ti ho fatta piangere per averti
                           solo un po’ più bella.

 
 
 
 
 
 
«Però le cose cambiano»
mi dici dallo zenith
                       d’un accento
che non mi è possibile tradurre.

E forse hai anche ragione che
il male ha da venire
per curare ciò che resta
                       delle cose.

                       Ricordo
quella volta di Bordano
– alla Casa delle Farfalle –
tu ridevi della mia paura
degli insetti, non sapevi
che anche una farfalla sa far
                                    star male
quando ha le ali troppo grandi.

 
 
 
 
 
 
Ti racconto la mia malinconia.

È l’entrare in un negozio sapendo
che già ci sarai stata a braccetto
con lui, o mano nella mano, o
in una qualunque altra forma
                                   affettuosa
che ti ha legata a un altro uomo.

È l’ascoltare una donna che mi vuole
curare la tristezza con un’ora
                                    – forse due –
nel letto, quasi madonna dolorosa
                       in un atto di pietà.

È il ricordare il sorriso del tuo volto
                       sapendo che lui lo bacia.

È questo sapere che ti ho amata
per tre anni sette mesi e quindici giorni
e qualche movimento della terra
                                   intorno al sole.

 
 
 
 
 
 
          Ti racconto la tua dolcezza.

È la tua mano che posa la mia mano
                         sul tuo seno
– e nemmeno te ne accorgi, io
provo a scostarmi ma tu
                         ritorni –.

È il mio toglierti le scarpe interrompendo
                         i tuoi discorsi
– il tempo ci ha in fondo regalato
                       due paia di ciabatte –.

È il tuo abbraccio che evita le labbra
con dentro agli occhi un’altra cosa.

L’amore è un libro che si chiude
con un ultimo estratto scritto
                        sulla quarta di copertina.

 
 
 
 
 
 
Ti racconto cos’è la mia passione.

È un letto che da solo mi è troppo
                   stretto e corto,
e con te troppo lungo e vasto

– ci abbiamo fatto il Kamasutra
intero e anche la seconda edizione,
                   ricordi? –

È l’averti guardata così a fondo
                      da farti vergognare.

È l’averti desiderata sulle scale
           mobili d’un supermercato

– e ti eri girata e mi avevi sorriso –.

Ed era il sentirti dire che sei casa
dove farmi entrare per un bene
                       solo mio, solo nostro.

 
 
 
 
 
 
Ciò che resta di noi, dopo di noi.

Una pioggia al di là delle montagne
o un verso come una bocca di leone
                                  sferzata dal vento

– una citazione, un plagio delle cose –.

Qualche memoria dentro i muri
                     d’una stanza, o in macchina

– il tuo odore fra le strade di Padova
e Udine, e Claut, dicono che
l’elenco dei ricordi sia già
                      una bella poesia –.

E un tremore nelle mani per il troppo
                                  amore provato.

 
 
 
 
 
 
Sono stato al laghetto dopo più
di un anno dalla nostra apocalisse.

           Tutto era come allora.

Gli stessi steli d’erba le stesse
                                   papere
– almeno credo – la stessa polla
d’acqua dove ti regalai la stessa
                                   rosa.

Mancavano solo i nostri baci
                                   lunghi,
il tuo sentirti bella dopo
aver fatto l’amore e il mio
sentirmi l’unico uomo
                                   per te.

Mancavano anche i tuoi occhi
dello stesso colore dell’acqua.

 
 
 
prova2
 
 
 

II

 
 
 
Anche gli oggetti dicono di noi.

Una maglione lasciato su un bancale
simile al tuo pube – magari
nemmeno tuo, ma che ti ricorda -.

O magari effettivamente tuo
                ma sconosciuta
a dire una nuova vita.

        Che il male è nelle cose.

 
 
 
 
 
 
E ti penso fare l’amore con lui.

Penso alla luce nella stanza,
ai vestiti ben riposti, penso
alla tenda da chiudere ancora
e alla ragnatela nell’angolo
vicino all’odore dell’armadio.

E penso che la vita sia come
quando fai l’amore con lui.

Una cosa che devi fare e che
ti dà anche un po’ piacere,
                ma non ti fa felice.

 
 
 
 
 
 
Non ti ho mai portata al Castello.

Da lassù puoi vedere un mondo
fatto di montagne, di bestiame,
di muggiti fantasma
che pensi già bianchi, e bordi
su cui la pioggia incontra gli alberi.

        Lì conosco dei poeti
di cui non potrò parlarti.

Lì conto le armature alle pareti.

 
 
 
 
 
 
E ti vedo fra le strade di
Trento, Milano, Bologna,
t’immagino sulla Senna o a
                Madrid,
o fra le pagine d’un libro
                a New York.

Non riconosco la tua bocca.

Nè il gusto discutibile che avevi
nello scegliere le scarpe.

Né quel laccetto fra i capelli
che faceva tutta la mia storia.

 
 
 
prova5
 
 
 
Ho ritrovato il tuo orecchino
dopo tre, quattro anni
                   che l’avevi perso

– ricordi ci eravamo accampati
in mezzo al cosmo, al suo buio,
a strappare baci e silenzi
                  che non si può dire –.

Pareva impossibile fosse ancora
                              fra quei sassi
ad aspettare un lobo, uno sguardo.

                       Meno impossibile
che io fossi ancora lì a cercarlo.

 
 
 
 
 
 
Dalle sette e mezza alle otto
                    al Lidl di Maniago
è l’ora degli uomini soli.

Lo vedi dalle bottiglie di vino
e dalle lattine di birra
               che fanno tutta la spesa.

Lo vedi dalla cassiera scontrosa
e dai pantaloni macchiati
                    sulle pance allargate.

                                 Oggi
ho preso un Nero d’Avola anch’io.

 
 
 
 
 
 
Sabato sera in pizzeria.

Ordino per me stesso, faccio
finta di non sentire quando
la cameriera chiede «vuole
                          qualcos’altro?»

Ovviamente porto via
per risparmiare qualche cosa.

A lei resta una pena negli occhi
per i miei pantaloni strappati.

Non sa che almeno una volta
        siamo stati tutti come Dio.

 
 
 
prova8
 
 
 
 
 
 
 
 
 
ilcoloredellacqua