Le stanze inquiete – Lucianna Argentino

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Ho scritto questo libro perchè non volevo andasse perduto quanto vissuto durante undici lunghi anni alla cassa di un supermercato. Soprattutto non volevo andasse perduta la memoria, seppur minima, di alcune delle persone con cui sono venuta in contatto. Un contatto vero, umano, che è andato oltre i gesti e le parole che il mio angusto ruolo richiedevano. Poi c’erano i foglietti di carta che affollavano le tasche del mio camice e la penna sempre a portata di mano per rispondere alla mia vocazione alla poesia.

Con queste parole, che sono già una sintesi del libro Le stanze inquiete (La vita felice 2016), Lucianna Argentino introduce una collezione non tanto di storie quanto di sguardo sulle storie (sempre dall’introduzione dell’autrice: Le stanze inquiete perchè ho immaginato ognuno di coloro di cui racconto, come una stanza di cui riuscivo a sbirciare l’interno dallo spazio che essi mi concedevano). Un libro che, similmente al precedente (L’ospite indocile, Passigli Editore 2012), esplora il magma umano con un’intensità mai negata ma trattenuta in equilibrio (nel caso di Le stanze inquiete c’è una meravigliosa immagine di Lucianna: Io che mi sporgevo al di là del plexiglas della cassa e loro che riuscivano ad andare oltre il camice che mi rivestiva e nello stesso tempo mi spogliava).

Non per nulla le medesime parole scritte per L’ospite indocile alcuni giorni prima della presentazione di Lucianna a Una scontrosa grazia presso la libreria Mondadori di Trieste (a cura mia e di Sandro Pecchiari) potrebbero essere riprese per Le stanze inquiete (la recensione qui): Un verso che fondamentalmente risponde, un’osservazione calma del mondo che risponde ai suoi quesiti, alle sue contraddizioni, ai suoi momenti alti e fondi. Con determinate convinzioni che però sono consapevoli che poi si salta, si cambia quota, con una precisa autocoscienza d’essere che però sa anche che buono è il cielo e la sua distanza. In particolare il verso appena citato è forse, insieme a piuttosto del moto armonico semplice dell’amore / che tiene alto il coefficiente di correlazione / tra i vivi e i morti, una delle punte più intense del libro. Che nasce e resta come una riflessione sulla parola, sull’amore, sulla luce e sull’ombra che in qualche modo misurano l’uomo (come tutto il bene / che in questo momento è compiuto / nel basso della terra / e si misura ad altezza d’uomo). Una distanza necessaria ad abbandonare le domande per regalare, attraverso la poesia, direttamente le risposte.

Quella altezza d’uomo è in effetti la medesima chiave di lettura che Lucianna non offre al lettore ma spiega d’avere utilizzato per leggere quanto vissuto durante undici lunghi anni alla cassa di un supermercato. Ci sono luoghi privilegiati (o meglio posti, come precisa l’autrice) nei quali è possibile non solo incontrare ma anche osservare le diverse sfaccettature dell’umanità. Luoghi di passaggio, di transito quali le stazioni, i luoghi d’attesa, e anche come spiega Lucianna la cassa di un supermercato che da una semplice cassa diventa porta oltre la quale vedere le storie delle persone. E in queste storie la loro umanità.

Ma a cosa serve tutto questo? Potremmo quasi chiederci di fronte alla chiusura del libro: E in ultimo ci sono io, / esercitata al bene e alla pazienza, / io con la mia vita stretta stretta, / con i miei tanti nomi, / io che osservo assediata / da centinaia d’occhi. È sempre l’autrice a spiegarcelo cambiando registro negli ultimissimi due versi della raccolta, riuscendo a riassumere in pochissimo l’intero volume non diventando didascalica ma quasi sorella, quasi complice (come nello stupendo testo: È arrivata poco dopo l’apertura la donna / che lesta e con noncuranza ha preso / della merce dall’espositore davanti alla mia cassa / e l’ha infilata in una grossa busta. / E quando l’ho bloccata riuscendo / a strapparle di mano la busta è scappata e mi ha gridato / Stronzetta t’aspetto fuori stasera! / Non temo la sua minaccia quanto il dubbio mio / d’essere stata complice di un destino avverso). Negli ultimi versi Lucianna torna alla natura intima della domanda, a quella necessità dell’assonanza col tutto, che è uomo e mondo ma anche Dio. In questo caso specifico non Dio ma dio perchè non (presunta) realtà oggettiva ma necessità soggettiva che in qualche modo emerge da tutte le stanze raccontate e da tutti gli anni vissuti al di là del plexiglas: ognuno con la sua muta preghiera / o la sua muta bestemmia, / che poi è lo stesso se crediamo / ci sia un dio ad ascoltare.

 
 
 
 
 
 
Nell’aiuola del parcheggo un gatto si rotola nell’erba in pieno:
mi consola il suo essere lì, perfettamente aderente all’attimo presente.
Verde anche il mio camice in cui sto dentro poco arresa,
eppure sorrido alla donna che mi mostra la foto del nipote,
coprendo col pollice il volto della mamma
e rivolgendomi uno sguardo mesto
si giustifica mia figlia è una ragazza madre.
 
 
 
 
 
 
Mi buttava via le bambole, mi racconta Pamela di suo padre
con uno smottamento che le fa più neri gli occhi.
Ma ora che non può più farlo ne ho la stanza piena!
Amara la rivalsa in quel rullio di nave
scossa dalle onde, ma tese e gonfie le vele,
le guance paffute e lei, bambina, piange senza capire,
e si sente buttata va con le sue bambole.
 
 
 
 
 
 
Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha scegliata in piena notte
e le ha detto Pina, Alberto se ne va…
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri
per certi invalicabili silenzi.
 
 
 
 
 
 
Quando era piccola Gaia
e arrivava alla mia cassa
sul seggiolino del carrello
voleva fossi io a farla scendere.
La nnna protestava sta lavorando,
ma non l’ascoltavamo.
L’ho persa poi in quelle strade oscure
che solo somigliano alla vita.
(In quale precipizio d’anni rimasta intrapolata?
In quale diverbio tra infanzia e pubertà?
E dove è fisso ora il tuo sguardo muto?
A chi rivolgi quel tuo sorriso immobile?)
Ma poco importa se non mi riconosci
che anch’io sai non mi riconosco
e guardo estranee le mani, i gesti
sempre, sempre quelli, estranei e stanchi
anche gli occhi riflessi sotto i numeri del display.
 

(Ora ragazza/bambina ti vedo al parco, per la strada, giocare con un mazzo di chiavi; frenetica cerchi per loro un ordine misterioso, un riscatto al caos che ti fa estranea al mondo – tu viva in altre intimità a noi nascoste)

 
 
 
 
 
 
Va via carica di buste piene la ragazza, bella, mora, formosa
(lavora in un’agenzia matrimoniale mi ha detto).
Potevi portarti un carrello per la spesa,
avresti faticato meno
, le suggerisco
e lei sgranando i begli occhi scuri,
no, mi risponde, non è sexy!
Rimango muta e penso che nessun uomo
per la strada avrebbe notato il carrello,
mentre lei si allontana ancheggiando sui tacchi alti.
 
 
 
 
 
 
E in ultimo ci sono io,
esercitata al bene e alla pazienza,
io con la mia vita stretta stretta,
con i miei tanti nomi,
io che osservo assediata
da centinaia d’occhi,
che nella speranza allevo parole,
io con i miei pensieri frantumati,
mandati a capo come una cattiva poesia.
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso,
una diversa cifra, grani di un immenso rosario:
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.
 
 
 
 
 
 
 
 

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