Uno dei testi più dolci a tema amore che ho mai letto è sicuramente la parte che descrive la relazione tra Ermes Marana e Ludmilla in Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Marana per ripicca, perchè innamorato e lasciato da Ludmilla (la Lettrice), traduce e falsifica più libri possibili sognando una letteratura tutta d’apocrifi. In realtà Marana, ancora innamorato, lascia segni del suo passaggio che sa Ludmilla coglierà e riconoscerà. In modo tale che più libri falsificherà più verrà riconosciuto dalla Lettrice e di conseguenza più sarà indirettamente presente nella mente dell’amata.
È un po’ la stessa dinamica, pur all’inverso e senza una lei che coglie e riconosce (per cui una dinamica molto più sola), del cercare una donna tra i libri, nei versi.
E la tua veste è bianca
Piegato hai il capo e mi guardi;
e la tua veste è bianca,
e un seno affiora dalla trina
sciolta sull’omero sinistro.
Mi supera la luce; trema,
e tocca le tue braccia nude.
Ti rivedo. Parole
avevi chiuse e rapide,
che mettevano cuore
nel peso d’una vita
che sapeva di circo.
Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti
come la prima volta.
Antico inverno
Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma:
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po’ di sole, una raggera d’angelo
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d’aria al mattino.
Mai ti vinse notte così chiara
Mai ti vinse notte così chiara
se t’apri al riso e par che tutta tocchi
d’astri una scala
che già scese in sogno rotando
a pormi dietro nel tempo.
Era Iddio allora timore di chiusa stanza
dove un morto posa,
centro d’ogni cosa,
del sereno e del vento del mare e della nube.
E quel gettarmi alla terra,
quel gridare alto il nome nel silenzio,
era dolcezza di sentirmi vivo.
Tu chiami una vita
Fatica d’amore, tristezza,
tu chiami una vita
che dentro, profonda, ha nomi
di cieli e giardini.
E fosse mia carne
che il dono di male trasforma.
Oboe sommerso
Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.
Un oboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.
Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,
e i giorni una maceria.
Parola
Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d’intorno, e stomir d’olmi
e voci d’acque trepide;
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.
Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s’incava ai lombi e in soave moto
s’allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.
Ma se ti prendo, ecco:
parola tu pure mi sei e tristezza.
A me discesa per nuova innocenza
Era beata stanotte la tua voce
a me discesa per nuova innocenza
nel tempo che patisco un nascimento
d’accorate letizie.
Tremavi bianca,
le braccia sollevate;
e io giacevo in te
con la mia vita
in poco sangue raccolta,
dimentico del canto
che già m’ha fatto estrema,
con la donna che mi tolse in disparte,
la mia tristezza
d’albero malnato.
Fatta buio ed altezza
Tu vieni nella mia voce:
e vedo il lume quieto
scendere in ombra a raggi
e farti nuvola d’astri intorno al capo.
E me sospeso a stupirmi degli angeli,
dei morti, dell’aria accesa in arco.
Non mia; ma entro lo spazio
riemersa, in me tremi
fatta buio ed altezza.
Sillabe a Erato
A te piega il cuore in solitudine,
esilio d’oscuri sensi
in cui trasmuta ed ama
ciò che parve nostro ieri,
e ora è sepolto nella notte.
Semicerchi d’aria ti splendono
sul volto; ecco m’appari
nel tempo che prima ansia accora
e mi fai bianco, tarda la bocca
a luce di sorriso.
Per averti ti perdo,
e non mi dolgo: sei bella ancora,
ferma in posa dolce di sonno:
serenità di morte estrema gioia.
Una voce
Io non ho che te,
cuore della mia razza,
che sei un rosaio di peschi e melograni
che odora, la sera, da tutte le terre
ove poso il mio capo tra i sogni.
Ogni cosa è smarrita
e non ha che parole dal vento;
tu spezzi il mio pane
e non sono più solo,
ché viene, da stelle nascoste nel buio,
una voce che chiama un bambino.
[…]
Mi chiedi parole. Ma il tempo
precipita come un masso sulla mia anima
che vuole certezze, e più non ha sillabe
da offrire se non quelle silenziose
del sangue legato al tuo nome,
o mia vita, mio amore senza fine.