Lo spazio – una riflessione

Appunti per l’incontro tenuto a Martedìpoesia – Pordenonelegge il 7 marzo 2022.

Lo spazio si può declinare in diverse modi ne significati:

  • spazio come posto fisico, delimitato
  • spazio come posto ideale, mentale, mnemonica, sentimentale
  • spazio come percorso identitario, qualcosa in cui ci si riconosca
  • spazio come estensione temporale
  • spazio come non detto

Queste sono alcune declinazioni dello spazio, ovvero di quella porzione di luogo, di posto, di tempo, di vita che viene delimitato da un bordo, un confine.

Leggiamo Cesare Viviani, da Dimenticato sul prato:

«Quale è il mio posto»

si chiede una voce consapevole.

«È quello di aderire

alla mia vocazione».

La vocazione si discosta dalla natura.

In questo caso “il mio posto” è lo spazio identitario dove io mi ritrovo, dove io mi riconosco. Quindi spazio come processo d’identità, di sviluppo. “Io sono” non è uno spazio, ma quando ho bisogno di “capire quale è il mio posto” ecco allora che sto parlando di uno spazio che mi riflette. Nitidamente od opacicamente non importa. Mi riflette, mi ci ritrovo. Ho la percezione dell”’io sono” e dell’”io divengo”.

Al contrario leggiamo da L’aria è una di Anna Maria Carpi cosa significa non avere “posto”, o “luogo”, ovvero “spazio”.

Non ha un suo luogo. Ogni sera di leva

dalla fossa comune

dov’è finito, al Maggiore –

vanno e vengono

i morti di nessuno in libertà,

ne sono certa –

ma non per questo non per tutto il male

che io ho poi detto di lui

ce l’ha con me. Lui si tormenta

per la mia vita,

e si torce le mani

e si dispera.

Ciò che è vivo ha un suo luogo, occupa uno spazio che è suo. Il che poi crea il problema sostanziale dell’umanità, corrosa da una natura prettamente aggressiva, violenta, prevaricatrice. E che si aggrappa ai pochi (perché se guardiamo da lontano le cose del mondo e della storia sono veramente pochi) momenti di pietà e bontà per credersi migliore di quel che da millenni dimostra di essere.

Il problema dello spazio, del “luogo occupato”, è quello che accade in guerra. Io invado il tuo paese, prendo i tuoi “spazi” o perlomeno li devasto quel tanto da toglierti la possibilità di esistere, che pretendo essere solo mia a discapito tuo. Togliere lo spazio è proprio togliere la possibilità di esistere.

Si pensi alla prigione. Quel limitare la libertà, diritto teoricamente imprescindibile di ogni essere umano ma che si può perdere, è di fatto un limitare lo spazio. Tu puoi stare solo qui. Puoi studiare, guardare la televisione, accedere a internet, ma solo qui. Non puoi andare dove vuoi. Non hai libertà di gestire il tuo essere nei luoghi, negli spazi.

C’è una poesia bellissima di Valerio Magrelli da Exfanzia che dice:

Le case che uno lascia: vuote voragini,

nude, senza più oggetti.

Oscene, anzi, ecco,

oscene, e osceni noi

a guardarle

come si guarda un genitore nudo.

Girati, presto, prima che lui stesso

possa guardarti.

Non farti mai guardare da una casa

che hai denudato.

Questo testo aggiunge un ulteriore tassello al concetto di spazio: il vuoto. Lo spazio in quanto tale ci è inconcepibile. Lo spazio vuoto ci provoca in diverse declinazioni il vecchio horror vacui, una repulsione naturale. Lo spazio esiste solo se è riempito. Tanto più che lo spazio potremmo addirittura identificarlo non come la parte di esistenza delimitata da bordi o confini, ma come ciò che vi è dentro o come ciò che potrebbe esserci dentro.

Un po’ come il discorso del peso. Il peso di un oggetto, di una persona, non è la sua effettiva massa, ma la forza che produce secondo gravità (e sappiamo che la gravità cambia in relazione al luogo dove ti trovi). Così uno spazio non è quasi mai lo spazio vero e proprio, ma la sua possibilità di essere riempito.

Tornando al discorso dell’essere umano e al verso di Viviani «Quale è il mio posto», il mio spazio possiamo ben immaginare sia il posto che io posso riempire, e come lo posso riempire. Questo è un concetto facile che, al contrario, riprende anche il testo di Magrelli. Una casa è uno spazio mio perché lo riempio con oggetti con cui sto bene, con cui condivido il mio luogo e nei quali mi ritrovo e rispecchio (altrimenti non ci starei bene). La casa vuota, senza il mio “riempimento”, è una “vuota voragine” da cui non farsi guardare. La casa vuota è uno spazio che non deve esistere perché privo di significato, o ancora peggio perché dice l’invadenza del nostro concetto di spazio. Lo spazio siamo noi che lo riempiamo. Quello che credevamo essere il nostro rifugio in realtà eravamo noi. E senza questa metaforica stampella sembra non riusciamo a vivere.

Ma siccome l’uomo è straordinariamente capace di dare sempre le soluzioni sbagliate a problemi legittimi, anche in questo caso è riuscito a creare uno spazio vuoto pure se riempito. Torniamo alle definizioni: lo spazio è l’area che non riusciamo a vivere se non riempita sostanzialmente da noi, di noi. Lo spazio esiste ma non riusciamo ad accettarlo, e lo riempiamo facendolo diventare luogo. Uno spazio che abbiamo occupato.

Ecco quindi che l’uomo ha creato il non-luogo, ovvero uno spazio riempito di cose che non dicono l’umanità che ci vive. È altro da te, tu puoi solo accedervi ma non sei tu. In realtà tali non-luoghi (e ovviamente faccio riferimento a Marc Augé) esistono da sempre e sono necessari. Si pensi ai cimiteri, appunto alle prigioni ma anche ai conventi, agli ospedali. Luoghi riservati ma che rispetto a tutto il resto appaiono come sospesi in tempi e modi di loro esclusiva pertinenza. Sono spazi isolati dove la vita scorre in maniera differente perché le relazioni interne sono differenti. L’uomo che riempie quegli spazi ha dinamiche precise e diverse dall’esterno. Sono contro-luoghi, luoghi che sono altro. Spazi che sono altro.

Questa è la definizione di Michel Foucault di luoghi eterotopici, e chiunque sia mai stato ricoverato in ospedale lo ha esperito. E quindi cosa fa l’uomo? Prende questi luoghi eterotopici, in qualche modo necessari, se ne lascia ispirare e crea i non-luoghi.

Si pensi ai supermercati. Supermercati di diverse città ma della medesima catena appaiono identici. Tu entri e trovi le medesime cose posizionate nel medesimo modo. Potresti essere a Pordenone quanto a Bologna. Se entri nel medesimo supermercato non avrai contezza di dove sei perché sarai entrato in un luogo che non è spazio perché è stato riempito, ma non è luogo perché non è stato riempito di te. Di te come storia, identità.

Questo non luogo è letteralmente una sospensione anche nel tempo. La maggior parte dei supermercati, non dico tutti solo per evitare d’essere contestato per eccezioni di cui non sono a consocenza, non hanno finestre. Non hanno rapporto con l’esterno se non vicino alle casse. Questo per togliere la dimensioni temporale una volta che entri in quel non-luogo.

Veniamo quindi alla poesia. Seguendo il ragionamento dell’impossibilità di approcciarsi a uno spazio vuoto, e del bisogno di riempire tale spazio facendolo diventare luogo in qualche modo dandogli la nostra connotazione, la nostra identità, proprio come si fa con una casa che si ammobilia con ciò che noi siamo, la poesia può essere intesa come uno spazio da riempire, una storia da ammobiliare.

Specifico che dire “la poesia è” lo trovo sempre abbastanza inappropriato. Parliamo della poesia come di un qualcosa d’altro che va osservato, discusso, con cui appunto dibattere e dalla quale imparare. Trovo molto più pertinente negare l’esistenza della poesia così antropomorfizzata, così idealizzata, se non nella forma di una semplice comunicazione. Trovo più appropriato dire “fare poesia” nel senso di “fare qualcosa, nello specifico comunicazione, secondo dei principi e delle strutture identificate come poesia”.

Dato questo torno a parlare di “la poesia è” per praticità. E seguendo la metafora della casa, della storia da ammobiliare, posso dire che la poesia è una storia da ammobiliare. È un posto, tra l’altro dove lo spazio inteso come alternanza di riempimento e di vuoto è assolutamente importante e connotativo, dove risistemiamo gli oggetti dell’accaduto. Della vita.

Perché risistemarli? Perché non possiamo concepire lo spazio vuoto nella nostra vita, ma non di rado nemmeno il luogo che diventa perché non è un nostro luogo. Non serve arrivare alla trincea ungarettiana che rende fulminante quel “non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita” o quel “È il mio cuore / il paese più straziato”. Basti pensare alla Milano asfittica di De Angelis in quello che per me resta il suo capolavoro, Tema dell’addio (“Milano era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto / di un giardino avvenne la carezza, la penombra / addolcita che invase le foglie, ora senza giudizio, / spazio assoluto di una lacrima”), o lo “star qua” caproniano de Il franco cacciatore ( Che senso può avere «esser vivi». / Star qua, il cuore in gola, a spiare / il Quadro Partenze e Arrivi?… // Moriamo con noncuranza. / Liberi. D’ogni speranza”), o il “camminare” nello spazio luziano del Quaderno gotico (Camminare è venirti incontro, vivere / è progredire a te, tutto è fuoco e sgomento”) che negli anni diventa “storia in tutta la sua distesa, in tutta / l’altezza dai fondali alle montagne” in Dal fondo delle campagne (“È un giorno senza novità o persone… / Tu che occupi tutta quanto è vasta / epoca dopo epoca la storia / in tutta la sua distesa, in tutta / l’altezza dai fondali alle montagne / dove in rocce vietate all’uomo / incerto muove i passi lo sherpa / ma diffondi oscurità / difficile a forare / e se mai solo vivendo, se mai solo scendendo questa scala, // è un giorno senza novità o persone”) fino al “Mondo, non sono circoscritto in me” di Sotto specia umana (“Mondo, non sono circoscritto in me, / hai voluto che fossimo ciascuno / un progetto di vita / nel progetto universale. / So bene che dobbiamo mutuamente / tu ed io crescere insieme – / era scritto nella pietra / del suo estremo miglio / e ben dentro di sé. Amen”) che apre alla condivisione dello spazio, all’apertura della casa di cui si parlava prima per renderla non più piena solo di noi ma del mondo stesso, del suo avvenire.

Cosa che personalmente non credo, e ho anche scritto qualcosa su questa promessa mancata di Luzi. Oggi gli spazi sono sempre più chiusi e isolati, le case sempre più con le tende e le finestre chiuse, volendo continuare con metafora. L’uomo sempre più relegato al proprio piccolo spazio, e più piccolo è meglio è. Si pensi all’algoritmo dei social: vedi solo quello che ti piace, ti viene proposto solo qualcosa in linea con i tuoi gusti. La sorpresa, il nuovo, è escluso. Sei relegato al tuo spazio, o meglio all’etichetta del tuo spazio.

Pasquale Di Palmo scrive una bellissima poesia in questa direzione, che trovo illuminante. La prendo dal libro che me lo ha fatto conoscere per caso in una biblioteca della provincia di Pordenone. È Ritorno a Sovana, del 2003:

Infine ci sono tornato, a Sovana.

Dopo dieci, forse undici anni.

Sono tornato con Nilda

che allora non conoscevo

e con la quale mi ero ripromesso di tornare

qualora l’avessi conosciuta.

Abbiamo dormito in una camera

ombreggiata proprio a ridosso

della scarpata che delimita il borgo.

Abbiamo percorso la via Cava

che tanto mi aveva impressionato

come formiche lungo una clavicola.

La notte, passeggiando lungo l’unica

strada che attraversa il paese,

mi sorprendo a pensare,

sotto la luna istoriata di queste

arcate, di essere diventato un altro.

Silenzio, soltanto silenzio.

Le ombre dei passanti

incrociandoci

hanno sul volto un riverbero di velluto.

I luoghi, gli spazi in questa poesia sono il ritorno della propria identità e storia. “Mi sorprendo a pensare […] di essere diventato un altro”, e questo è possibile solo grazie al luogo dove ritorna, a Sovana.

Lo spazio quindi come un riflesso di sé che dice di noi più ancora di quello che comprendiamo solo pensandoci. Lo spazio che diventando luogo, occupandolo con noi, diventa noi e noi diventiamo lo spazio. Si pensi alle teorie non solo fisiche che vogliono l’osservazione senza modificazione impossibile. Non possiamo osservare delle particelle senza modificarle. Così come non possiamo occupare uno spazio senza modificarlo, si pensi alla natura.

E quindi scriviamo. Riempiamo lo spazio vuoto della pagina facendolo diventare luogo della storia su cui stiamo riflettendo. Rimaneggiamo gli arredi della nostra vita, delle cose che osserviamo, e li ordiniamo attraverso l’uso della parola non per creare qualcosa di nuovo, ma per allestire un luogo a noi più confacente. Che non vuol dire comodo.

Riempire lo spazio bianco di uno schermo o di un foglio è ricreare, rifotografare, la stanza che abbiamo abitato ma rendendola per noi più abitabile. Assumendo in noi l’intera collettività.

Fare poesia per alcuni è un atto sempre politico, per altri ho sentito è un atto sempre d’amore. Io la intendo, non solo quando la scrivo ma soprattutto quando la leggo, come un atto sempre collettivo che parte dal singolo ma include gli altri. È un vero e proprio spazio fisico e mentale dove stare bene e stare male al fine di ottenere qualcosa. Sia esso una riflessione, una crescita, una suggestione.

Andare a capo in un testo, lasciare lo spazio vuoto del bianco e del silenzio, non è solo tecnica (pure essenziale, necessaria) ma è un vero e proprio sistemare i mobili della casa. Qui finisce il tavolo, qui la sedia. Insieme fanno non solo la cucina, ma la storia della cucina, la storia accaduta, la storia emotiva, le conseguenze e i resti dentro noi, nel nostro spazio interiore, di quella cucina.

Andare a capo, spezzare lo spazio riempito, è decidere il senso del testo. E così come lo spazio diventa luogo perché lo riempiamo di noi, la poesia diventa tale perché sappiamo riempirla e dosarla con l’unica capacità che forse potrei dire essere “poesia”. Il saper osservare e pensare le cose in maniera collettiva, come se fossimo tutti.

Non il viverla, ovviamente. Quando viviamo siamo sempre solo noi. Ma quando scriviamo e leggiamo siamo tutti insieme in quel testo. Chiudendo quindi si potrebbe dire che il testo poetico è quel luogo eterotopico di Foucalt (non certo il non-luogo di Augé) dove trovare la cura, la sospensione, il vero luogo di cui abbiamo bisogno in un mondo di spazi alienanti, privi di identità, privi di uomo.

Si potrebbe dire che è il nostro spazio della possibilità, della speranza.

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