Ieri sono andato a vedere la mostra Noise – polaroid oltre il suono di Massimiliano Muner organizzata da Silver Age in collaborazione con Artrophia e presentata da Lucija Slavica a Trieste. Quanti seguono questo mio piccolissimo blog sanno che non mi occupo di arte seppure abbia talvolta spaziato nell’ambito più per amicizia o motivazioni strettamente personali che altro. Dalla riflessione Poetica del corpo ripetuto sulla pittura di Ivana Hajek alle opere di Rachel Slade che ho più volte ripreso essendomene occupato anche a livello di proposizione (La casa apocrifa, Poetica del non luogo, Paintings) ad altri incontri che poi sono sempre diventati sempre stupendi momenti di dialogo e amicizia. Sto pensando ad esempio alla straordinaria Francesca Franco (incontrata allo Spazio Bevilacqua a Venezia a una mostra da lei organizzata sulla Computer Art), o all’immensa Miroslava Hajek (colpevole di detenere l’archivio Munari e conosciuta allo spazio Dellupi Arte di Milano, persona con la quale poi abbiamo anche fatto un evento presso la storica Villa Cernigliaro in Piemonte assieme all’artista ceco Jan Samec), o agli amici udinesi dello spazio espositivo MAKE, gli amici della CASA VUOTA romana di Francesco Paolo Del Re, gli amici dell’associazione PROLOGO goriziana e via dicendo.
Questo insomma per confessare la mia totale ignoranza sul versante fotografia e per dichiarare il presupposto a me inevitabile che è un approccio squisitamente poetico. Così come devo ammettere di non essermi fermato, per motivi personali, molto tempo presso la mostra e di non aver parlato con il fotografo, per cui le mie impressioni sono solamente e limitatamente riportabili a quanto ho visto un po’ di sfuggita.
Massimiliano Muner si riappropria e usa uno strumento di alcuni decenni fa quale la polaroid inserendosi in una tradizione ben riconoscibile che parte da Edwin Land e passa per uno dei riferimenti maggiori dell’artista quale Maurizio Galimberti. Ricolloca cioè un mezzo analogico in un periodo ormai di dominio digitale, andando a gestire artisticamente l’oggetto e non l’astrazione della sua immagine (si pensi ad esempio ai tagli alla Fontana che ha fatto di alcune foto con queste vincendo il Primo Festival della Fotografia Istantanea ISO600). Platonicamente parlando, e ha senso fare questo riferimento soprattutto per il contesto storico-culturale non in cui si inserisce ma in cui nasce Muner (la maggiore distanza temporale dall’uso quotidiano dello strumento analogico accentua la responsabilità della scelta che diviene sempre più una presa di posizione), potremmo dire che va a gestire l’oggetto e non la sua ombra. Bypassa l’astrazione, la proiezione per scomporre e ricomporre matericamente la realtà a monte. Un desiderio di relazione fisica con l’immagine che porti a un’amplificazione del significato della realtà riprodotta senza però travalicarla, restandone ancorati senza mai debordare nel limite dell’idealizzazione (ambito del digitale). C’è una capacità di osservazione che si nutre di padri artistici e cerca (e trova) una personale visione della realtà. Si lui infatti leggo si dice: Tagliare il fotogramma permette anche di andare oltre il finito suggerendo nuovi e diversi significati. La sua ricerca si evolve poi nella rivisitazione dell’ambiente urbano, nella dilatazione dello spazio visivo, attraverso la scissione e ricomposizione delle immagini. Lo spazio controllato, racchiuso dal frame, viene superato grazie al taglio e all’utilizzo delle istantanee come frammenti di un mosaico per proporre un messaggio più ampio.
Il dubbio che mi viene è che artisti come Muner si stiano rapportando alla realtà cercando il luogo dove apparentemente si manifesta un non-luogo. Così come in effetti Augé ha fatto componendo e scomponendo la sua stessa teoria arrivando a parlare di super-luoghi che oggi tra l’altro vediamo andare in crisi. Artisti come Muner cercano di non accontentarsi della realtà immediatamente visibile ma la esplorano verticalmente senza allontanarsene, agendo su di essa con lo strumento artistico che riprende il desiderio archetipico d’essere artigiani della materia, della realtà stessa.
Questo amplificare per una maggiore e migliore osservazione l’ho trovata anche nella sezione principale della mostra di ieri, dal titolo Noise. Qui il fotografo non scompone la realtà ma evidentemente riflette e gestisce la composizione di diversi linguaggi circumnavigandone i limiti per una zona emotiva e sensoriale intermedia che emerge dall’intersecazione dei diversi ambiti. Un po’ come pensare all’intersecazione di due aree colorate (giallo e blu ad esempio) con l’effetto di una zona intermedia diversa (verde) che in virtù della sua diversità non solo è altro ma è anche di più. Muner si rapporta visivamente al suono fotografandolo con colori vivi e impattanti. Ne fotografa il grafico, la rappresentazione partendo dal respiro e arrivando alla musica.
Per capire la portata di questa operazione bisogna innanzitutto fare una piccola critica al nostro contesto. Indiscutibilmente sappiamo d’essere in un sistema che predilige il rapporto visivo, anche nella relazione con la musica. Da Mtv in poi preferiamo un supporto video, non a caso le radio sono diventate piccole trasmissioni televisive o web tv. L’operazione di Muner prende atto del contesto ma si chiede come può rapportarsi a qualcosa di squisitamente non visivo quale il suono puro e semplice. Si chiede se c’è una zona da esplorare che ci è preclusa per la miopia culturale che ci contraddistingue. E inizialmente fa riferimento all’uomo, al motore della sua vita che è il respiro.
Lucija Slavica, nella sua introduzione, ha citato se non erro un passo di John Cage dove si afferma che il silenzio non esiste. Vi è una sorta di horror vacui anche nel suono e questo va in totale accordo che le recenti teorie scientifiche che vogliono la realtà modificata dall’osservatore in virtù dell’osservazione stessa. In parole povere non potremo mai sentire un silenzio assoluto perché nel momento in cui elimineremo ogni rumore (appunto noise) resterà il battito del nostro cuore (la presenza quindi dell’osservatore modifica l’ambiente, crea rumore dove non c’è). E pensandoci bene l’uomo ha sempre immaginato la presenza di un qualcosa definibile in termini di suono: dalla musica delle sfere di Pitagora (ripresa in qualche modo anche da Dante) alla radiazione di fondo dell’universo che Cramer ha rappresentato con dei suoni sulla base della teoria (pare addirittura accertata) che l’universo primordiale fosse effettivamente percorso anche da onde sonore.
In poesia la comprensione e la gestione del silenzio ha nel primo Ungaretti un maestro inarrivabile. L’ermetismo secco e lancinante composto da una metrica franta usa il vuoto come strumento per sottolineare la parola, per focalizzare l’umanità dispersa dietro la parola proprio in virtù del silenzio. Muner, in altro ambito, contrasta silenzio e suono per cercare l’archetipo esistenziale dell’io, della propria nuda esistenza nel respiro. Per poi arrivare a esplorare la realtà attraverso l’area (ripeto) emotiva e sensoriale d’intersezione tra suono e immagine.
Per far capire meglio l’impatto di questa operazione di Muner voglio confessare un’esperienza che mi è capitata ieri durante la mostra. Ho già dichiarato i miei limiti nell’ambito per cui non spenderò altre parole su questo. Dunque le opere, le polaroid, hanno dimensioni discretamente ridotte e per alcune l’artista ha fatto degli ingrandimenti per agevolarne il rapporto. In un paio di queste, ma soprattutto in una, mi sono dovuto soffermare alcuni minuti perché incuriosito dalla presenza di una forma, un contorno, un qualcosa di più di un’ombra che ho intravisto tra le righe dell’opera. La mia impressione è stata che ci fosse letteralmente una presenza nascosta, una raffigurazione opaca di qualcuno o qualcosa. Ho un amico artista, Paolo Maggis, che mi ha insegnato a cercare il racconto di un’opera attraverso le minime modificazioni, ma costanti se le lasci arrivare, che l’opera ti trasmette (quando è una vera opera d’arte). Allora ho atteso di comprendere l’intreccio di quella figura nascosta. Ma invece di chiarirsi appariva sempre più appannata, sfuggente pur nella presenza. A un certo punto mi sono dovuto addirittura chiedere se quel profilo esistesse realmente o meno, se l’intersecazione dei linguaggi non stesse provocando in me l’emersione di un qualcosa che nasceva come input nell’opera ma era di fatto una mia impressione personale, una mia immaginazione esperienziale.
La risposta che mi sono dato è che l’opera di Muner stesse stimolando in me un qualcosa che non è solo memoria, non è solo desiderio, non è solo immaginazione né solo osservazione ma l’intersecazione dei vari ambiti seguendo l’iter compositivo dell’artista. In altre parole l’opera non mi stava comunicando una visione del mondo o dell’artista, ma uno strumento per guardare il mondo e me stesso.
In ultima battuta voglio fare un plauso (che forse potrà sembrare sciocco ma le mie navigazioni nell’ambito artistico hanno insegnato essere non di poco conto) sulle dimensioni delle opere. Muner lavora con delle polaroid e questo lo obbliga a misure molto ridotte. Una cosa che talvolta si dice è che l’opera grande, enorme è spesso una giustificazione per una carenza artistica di fondo, mentre nell’opera minuta l’artista si gioca una profondità onesta, chiara e complessa senza facili scappatoie.
Muner in questo l’ho visto appunto onesto, profondo nel cercare una relazione vera e diretta, non artificiosa, non rivestita di sovrastrutture. Addirittura poetica.
Alessandro Canzian
Massimiliano Muner nasce a Trieste. Nel 2011 viene premiato per la particolare tecnica creativa del taglio delle immagini polaroid in una collettiva di oltre 40 fotografi, vince il primo Festival della Fotografia Istantanea. Nel 2012 fonda l’Associazione Fotografica Officina Istantanea, una realtà che si pone l’obiettivo di promuovere e diffondere la pratica e la cultura della fotografia analogica e istantanea, omaggiando la figura di Edwin Land, inventore della Polaroid. Dallo stesso anno è tra gli artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia e della galleria Barbara Frigerio Contemporary Art di Milano. In questi ambienti conosce Maurizio Galimberti che lo aiuta nel proprio percorso formativo. Nel 2013 collabora con il fotografo milanese in un suo workshop a Venezia, nello stesso anno è ospite di Impossible Project al Photoshow di Milano per esporre la propria particolare tecnica artistica, par- tecipa quindi al 17° International Art Symposium Medulin (HR). Dal 2013 crea SPAZIOWHITE. Dal 2014 è ideatore e coordinatore del progetto Fotografia Zero Pixel, nel 2016 assieme a Luigi Tolotti fonda Silver Age, centro di interesse culturale per le arti visive. Suoi lavori sono stati esposti a Trieste, Milano, Roma, Vienna, Berlino, Zurigo e New York, sia in spazi espositivi che in gallerie d’arte, in collettive e personali. Per una lista completa di mostre, pubblicazioni, premi e residenze visita la pagina exhibitions.