La coda del pavone di Matteo Cimenti esce nel 2014 per i tipi della Ladolfi Editore. Contiene una prefazione dello stesso Editore Giuliano Ladolfi, una nota introduttiva dell’autore, e una postfazione di Franco Fabbro. Un bel libriccino di poesie, di quelli che però non leggerei per il puro piacere di leggere. Perchè Matteo Cimenti è un capace compositore di parole di cui ne conosce bene senso e pieghe. Tanto da poterle senza troppi intoppi prendere in giro. Certo sembra paradossale pensare di poter curvare talmente tanto la schiena delle parole fino a farne toccare le estremità, per ottenere un teatrino che si fa sorridere, riflettere, un poco amareggiare. Però in fondo gli ingredienti sono semplici: qualche rima, una forma tutto sommato rigida nonostante l’apparente libertà, una buona dose di autoreferenzialità che più che un accidente è una volontà di escludere il lettore, perchè di lui non c’è bisogno. E da questo un grottesco-non grottesco che trova la sua più efficace sintesi nel titolo: La coda del pavone.
Nella sua piccola nota introduttiva Cimenti si spiega così: Prima viene la nigredo, la tenebra in cui l’ego perde l’autoreferenzialità e la propria consistenza; poi viene la luce, bianca come la somma dei colori che descrivono la coda del pavone, simbolo di vanità e mondanità: l’albedo descrive la molteplicità dell’esistenza, la vita di relazione ed in relazione con il mondo. La citrinitas introduce l’archetipo del Vecchio Saggio, la cui saggezza rappresenta solamente l’intuizione di una unità ben lontana dall’essere conquistata.
Insomma gli elementi ci sono tutti, nella loro dichiarazione e autonegazione, in buono accordo con un mondo che va nella medesima direzione e al quale Cimenti pare dire guarda che tu sei così.
Se tolgo il superfluo rimane
un sordo buonsenso d’altura
e un naso grosso e rumoroso
– decreta la punta d’inchiostro
l’ultima identità segreta.
La osservo stupito tracciare
intimità del cuore che so
per certo non interessare
gli altri e me stesso, in primo luogo
Mi turba tuttavia e non poco
l’idea stessa del rendiconto
l’ambiguità sottile del bilancio
la sensazione che un autoritratto
sia essenzialmente, un chiedere perdono
Sai bene che un vivere così
è un vivere così e basta.
Dietro una maschera di pietra
dietro un acero intarsiato
dietro un dito puntato
sui trattati psicologici
dell’universo umano.
Un ispettore da sempre
sulla scena del delitto
in attesa che il colpevole
posi l’indice sul mio paragrafo e dica:
tu sei qui, e puoi soltanto guardare
Chi mai può temere l’Apocalisse
al giorno d’oggi – suvvia non scherzare
credi davvero di meritare tanto?
ben che ti vada direi che al massimo
puoi sperare in una crisi di pianto
Vorrei poteri dire queste cose
assieme e tutte in una volta sola.
Mi manca la lucidità per farlo
per stendere una linea che abbia un prima
e un dopo e ancora sempre più sottile
l’inciso sopra un foglio come un epico
finale di battaglia – e forse l’ho
trovato: non c’è il tempo, per parlare
Meritare patenti
di idoneità sociale è sapere
che l’alto e il basso non sono
ma un orna e un dopo soltanto.
Nozione essenziale ma insufficiente
per prendere in mano il volante
allora mi chiedo: chi sta guidando?
L’estetica è la forza di gravità
accentra e dispone inconsapevole
elementi sparsi che si annusano
condensano e collimano
nell’invenzione
se sai pescare
nella rete immane
forse un gioco per persone curiose
di sicuro, un’inspiegabile urgenza