Anatomia del solo è il piccolo libriccino di poesie di Tiziana Cera Rosco edito da Cuoreinverso Edizioni. O meglio, uno squisito insieme di fogli pregiati finemente stampati legati da un filo rosso che percorre i dodici preziosi titoli ad oggi usciti, tra i quali questo.
Una poesia che ha, quasi tornando alla tradizione orale, dei punti d’appoggio fortissimi nei simboli (le aquile, il Santo Danno, l’Elemento Mancante, l’amore stesso, la solitudine, Dio), che è tutta tesa a misurare la distanza tra le varie stanze dell’essere (tra il sè e gli altri, tra il sè e il sè, tra il sè e la necessità che ha il sé, non ultima la distanza tra il sé e i simboli) rapportandosi a questa distanza come se fosse un corpo. Un qualcosa che si può capire dissezionandolo (tasta un seno che sono in grado di sgozzare, un latte / e di disporre avanti a me come una zona di vuoto) con la paura che ne emerga un vuoto.
La distanza è in effetti sempre un vuoto, un qualcosa che si interpone tra noi e il bisogno che abbiamo degli altri, o di una parte mancante di noi. L’amore per questo motivo in Anatomia del solo pare coincidere col filo rosso che lega tutti i fogli ma che devi svolgere e togliere per leggerne l’interno. La distanza che si crea fa quindi emergere gli elementi all’interno delle cose, dell’anatomia delle cose della vita, la loro estrema variabilità come dice Tiziana per arrivare a comprendere che bisogna lasciare soffrire tutto di incertezza.
Un’incertezza che è abbandono e ritorno, che è guerra di lettere, ma che ha in sé, nella propria anatomnia costitutiva, anche una certa percentuale di certezza: Ma sto partendo perchè c’è un amore certo / per l’integrazione delle mie molte carni / l’ho messo decisamente a fuoco / e il suo nome è Solitudine.
In qualunque luogo sarà il corpo
là si raduneranno le aquile.
Per questo ti dico “Non tremare”
“Non tremare” sarà il tuo tuono.
Quando sarai morto, corpo mio,
perfettamente tenero
perfettamente quieto
perfettamente spaccato nel mezzo
ricordati di me.
Raggiungimi.
Avevo visto piegare la sua massa nella petraia
quella mattina
parlare con me in una lingua che avevo riservato ai demoni
senza che gli orsi ne avessero massacro
senza che il fulgore fosse una potenza di piombi alle cime degli alberi
ma negli animali potevi vedere una linea dentro l’iride
un taglio di trasparenza
nessun tragico
nessuna dimensione apparente
nessun bisogno di piangere sui presagi.
Da questa parte del mondo sentimmo parlare di una ferocia invincibile.
Avevo la tua età.
Impara a distinguere il miglio
e le ore della luce
distinguere
bene e male a volte sono sufficienti
ma il buio non è mai appenma buio, figlio mio,
guarda, ad esempio, che creatura enorme tra noi
la distanza.
Più in là – dissero – Non Credere
ed è uno sparo che impari con l’inverno
coagularti, un osso, la corporatura delle iene
e se il freddo dice Non piangere, non piangerai.
Dal retro qualcun ancora fuoriesce le sue mani
tasta, un seno che sono in grado di sgozzare, un latte
e di disporre avanti a me come una zona di vuoto
un’anatomia al contrario.
Ogni taglio dice Dio
ogni silenzio un discorso sulla carne
ogni solo che tutto è l’aspro di una fine.
Una promessa mi brillava nel petto
un letto chiarissimo che supera
quel che simula calore.
Ogni abbandono dice Dio
ogni verso dice sopravvivenza alla fine del mondo.
E se il freddo dice Non piangere
Non piangerai.
Per un istante
il buio della pupilla
fu messo decisamente a fuoco
e fui trattenuta nell’aperto da un cervo
un cervo che non potrei dire
se fosse lui o io nella sua figura
con tutto il pelo trattenuta
al limite in cui il mondo animale
infetta una dinamica di integrazione delle carni.
Si sono registrati diversi casi
– oltre il mio –
di persone sopravvissute incredibilmente incolumi
incredibilmente ancora tornite
potrei quasi dire che non ne morì davvero nessuna
e in tale crescente esplicazione dei trapassi
mi si chiese ancora se credevo in Dio.
Fu chiaro a tutti i linguaggi
che stavo partendo
senza domande si apre il bosco
e dice che c’è amore per me da quelle parti
c’è amore certo.
Sono stata triste mille anni prima di qui
cercando di non sporgere l’aperto
ma sto partendo perchè c’è un amore certo
per l’integrazione delle mie molte carni
l’ho messo decisamente a fuoco
e il suo nome è solitudine.
“che creatura enorme tra noi
la distanza.”
splendido, elegantissimo verso…
come quei libricini preziosi…
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Tiziana si conferma una delle voci più interessanti fra le giovani generazioni… La sua è una poesia che, decisamente, ha qualcosa da dire 🙂
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