Per continuare il discorso sui maestri voglio parlare di un libro che da ragazzo ho amato moltissimo: Sotto specie umana di Mario Luzi (Garzanti 1999). Edito quando nei retri di copertina cominciavano a comparire gli euro, rigorosamente sotto il prezzo in lire, questo libro è una sorta di rappresentazione completa dell’opera di Luzi. È luce e oscurità, è gioia e patema, è grazia e storia.
Denso di luce, di colori, di una spiritualità che spesso si rifugia nella lingua latina ha uno dei suoi concetti più forti in una poesia quasi necessariamente d’amore nella sua accezione più ampia e onnicomprensiva: Quel pensiero / è una prigione. / Ma solo quella prigione lo libera. Libro della liberazione anche, della leggerezza nella direzione di uno sguardo epifanico non solo alla grazia ma sopratutto all’uomo. Un Amen perpetuo, da perpetuo cominciamento, che eleva ad abbraccio il concetto del così sia che è affermazione alla vita, all’amore, all’esistente (che è anche storia pur con i suoi bui).
L’occasione, la finzione del libro nel suo essere un racconto la dà lo stesso Luzi nel prologo: Il diario di Lorenzo Malagugini era aspettato dai pochi che sapevano lo tenesse e lo avesse sempre tenuto. Ma quando il suo povero bagaglio postumo fu rovistato, si vide che ne aveva lasciato sopravvivere solo tre pagine. Sono quelle che riporto in corsivo. Tutte le altre sono desunte da tracce, reminiscenze di compagni, estasi ed «erramenti» confessi più che altro in lettere. L’ordinario simbolismo del linguaggio non lo soddisfaceva più. Ambiva a un discorso che fosse voce della molteplicità (e simultaneità) del vivente e fosse dalla stessa condiviso. Proponimenti e desideri così totali finiscono per esprimersi in piccolo, per accenni. È quanto i suoi amici hanno raccolto: tra cui io. La richiesta che meno andrebbe fratta in questo caso è la distinzione dei soggetti e dei temi che sono volutamente uno solo. Tuttavia quello del noviziato incessante di lui mi pare riconoscibile.
Mondo, non sono circoscritto in me,
hai voluto che fossimo ciascuno
un progetto di vita
nel progetto universale.
So bene che dobbiamo mutuamente
tu ed io crescere insieme –
era scritto nella pietra
del suo estremo miglio
e ben dentro di sé. Amen.
Pareva fosse dato
variare a piacimento
il testo; che mutevoli
fossero in quel libro
le pagine e le parti.
Così malgrado il nero
lavoro delle sorti
erano nel perpetuo avvenimento
davvero quelle carte.
Invariabile era solo
l’opera dell’aria
che le sfoglia, le gira,
le consuma, in altro
insieme con se stessa le trasmuta.
Così pareva, così era.
Avviene, si trasforma
in avvenire l’avvenuto tempo.
È vero, si sentiva
talora il testimone
scambiato in corsa
tra possenti atleti
sulla pista di quel campo –
ma che n’era
ora
dei suoi neri patemi,
dei suoi lampi di letizia?
Dissolti in aria, finiti
in nullità – o li cifrava
in conto di giustizia
un libro, una imperscrutata matematica
protesa all’equità…
Eccola la tempesta,
è già nell’aranceto
tra i suoi pomi, le sue rame.
Furente il gelsomino,
a sprazzi, in quella raffica
acuisce il suo profumo,
esacerba il suo richiamo.
È tutto in agonia il giardino
che lui dal padiglione
sfiora appena
con i suoi occhi sultani
adusati alle stagioni,
ai loro inganni, consci
dei molti rimescolamenti
dell’unico principio. Ibi ipse est.
Spogliò, sera incupita,
quasi procellosa sera
d’ogni lume
d’azzurro
l’atmosfera
d’ora in ora
troppo nera…
asportò da quel miscuglio
di atre oscurità
nell’aria
il turchino ed il viola,
fu nero, nero nerore
però con occhi acquamarina
il monstre che chiuse la giornata:
ma non come minaccia,
novissimo preludio
a quale nostra
immemorabile avventura.
È mite il ghirigoro
d’aria e luce
che accompagna
al suolo
la resa delle foglie
sui viali lungo il fiume.
Perchè mi introduco in quel deliquio?
Perchè rompo, persona,
il muto canto?
Sarebbe
senza me uniforme,
pieno, invasato della propria inopia,
festoso.
Così scende
la vita, scende incontrastato,
pare, il suo sfacelo
a rigenerarsi nella morte
per il dopo, per il principio.
Salì, luce da luce,
si librò sopra ogni altra,
alta
s’infranse quella voce
sulla nota che non era
ed ecco ne piovevano i frantumi
muti – luminescenti
nella mente degli astanti,
nell’amniotico sopore
dei già quasi nascenti,
nella memoria dei defunti.
O cielo, era già stato
il tempo che verrà, era futuro
il tempo patito e delibato…
quando? Sempre, nell’eternità.
Siamo, infanti, a una soglia di bottega,
è tardi, non lasciano entrare.
Dentro cosa propinano
a chi, più tempestivo
di noi, è già all’interno
in fila presso il banco
e di noi rimasti fuori
si dimentica, non parla,
non ci rivolge uno sguardo?
Non si ha notizia. O ce ne sfugge il ricordo…
Eccomi, benedicimi, ti prego –
non so perchè da tutti i miei narcisi
e tutte le mie primule ti chiedo
questa benedizione, quasi fossimo
tu il mio signore
e io la timorosa ancella
che al suo ricomparire
dopo troppo lunga eclisse
chiede venia…
«Oh, non ingannarti,
non sono il tuo sovrano» – vorrebbe dire, si,
eppure non lo dice
in me l’antico Adamo, lo seduce
invece, non poco lo lusinga
e incanta quella buona grazia…
E allora
benedetta, primavera acerba
che tremi
e sali alla tua prima erba
e che di nuovo inventi
la tua favola
e la mia
e che in amore
riequipari il mondo,
il mondo e i suo creatore. Così sia.
Primavera onnipresente:
verde fiume, verde erba,
verde quasi turchese
dell’aria sulle ultime poggiate
a filo d’orizzonte,
strapazzato dal nembo,
dal sole rinverdito
e acceso nella sua offesa grazia:
Dov’è? – impossibile ubicarlo,
non ha sede, anima però
non gli vien meno – c’è
sottile un lavorio
nel mondo che diviene ed è.
E io arte e sono
un po’ l’oscura, un po’ la luminosa parte.
Oh pena, oh grazia.
Può essermi celato il pieno giorno,
può negarmelo un sipario
di materia e d’ombra,
però flagra, matura,
canta
pur nel silenzio degli uccelli
di là da quel diaframma.
Eccola s’infiamma la raggiera
dai minimi spiragli,
s’incendia di straforo
nel nero della stanza
il semicerchio d’oro, clandestina
corona alla vittoria del mattino.
È estate.
Siesta sotto il masso.
È estate. È lei,
sente, lo è,
erta, perdutamente. Le fonde,
dentro, nell’imo,
il proprio istante.
Pure tutto cuoce,
carbonizza, flagra.
Ombra a picco, avara,
nuda terra crettata
si sgretola, si polverizza.
Vampa, bocca di fornace,
non per annientare,
per rigenerare
vita dalla cenere.
E noi dentro quel fuoco
resine stillanti, oh
liberazione dalle scorze.
Luglio celeste,
luglio, limpido, instante.
Sono tutt’uno il senso e l’intelligenza,
scende pienamente l’idea nella sua forma,
abitano ciascusa il proprio nume
le cose e ne risplendono.
Si empie l’immagine di essenza.
Entra lei, Caterina, sdutta adolescente
in sé radiosamente. Oh anima,
anima imperante.
Tu, gli dicono, tu lo apostrofano. Io?
Anche a lui era data la maschera e il sigillo.
Non era fatto per custodirli a lungo,
aveva da portarselo
però quel duro guscio,
da rassodarne la corazza –
per poi a chi rimetterlo, a chi restituirlo
quell’ingombro? E come liberarsene?
Non per rifiuto, ma per consunzione,
per lisi e insieme per un pieno invaso
di mondo dentro di sé – così
sarebbe quella prigionia finita…
in un tripudio di libertà, di grazia.
Troppo altra da noi. Troppo oltre
la gittata del richiamo
o il segnale del ritorno.
Annientati finanche
dolocezza e struggimento
del ricordo, della differenza.
Da oltre ogni misura
umana ci sogguarda
l’età stata sovrana
pietrificata dalla sua distanza,
sottratta per opera del tempo
al tempo e al mutamento.
O era nostra
che ti vai fossilizzando
fammi uscire dal ventre
del tuo duro monumento
come bruco, come crisalide nel vento.
Il dopo, il più deve venire incontro.
Chiara si fece percepire
la sospensione della sorte.
Dov’era, nell’immagine dipinta
o in lui scritto l’istante?
Guardava o rammentava? O l’uno e l’altro…
Di vita non erano né avidi né sazi,
non avevano tedio, ma pazienza
in viso e se mai una punta d’alterigia
per il loro tesoro di sapienza
gli anziani del sinedrio
così dimenticati dalla morte
in quella tela tardovespertina
nella sala disertata
con il «si chiude» alle porte.
Il pensiero di lei
– perchè spesso la pensa –
ha dietro lontananze
di verde e di turchese.
Per arrivare a me – sorride dentro –
per venire come ora ad abitarmi
ha valicato plaghe
estese del nostro territorio,
valli interne che si aprono
e degradano e invasano acqua, tempo,
sogni: ne porta aromi rari,
sentori di intemporali essenze…
E ha udito musiche
infantili o d’apprendisti
zampillare dal cuore
di città romite,
antiche case
e torri
su cui scoscendono
e s’impennano le rondini…
E a quelle, lo trasente,
si uniscono altre lontananze
di anni e di vicende
che si perdono e ritornano
a fatica, malcerte, nei recinti
della reminiscenza
con trasalimenti, tuffi al cuore,
batticina, richiami
e nostalgie dicibili
forse
ma solo in lingua cherubina.
Quel pensiero
è una prigione.
Ma solo quella prigione lo libera.
Con grazia era tornata a sé Vittoria,
lieta, però con poca pace.
Troppa bellezza le stellava il sonno,
troppa Italia le dormiva intorno,
l’assediava troppa gloria
e troppa scellerata infamia.
Di nuovo si eclissò, Cristina,
e nell’oblio era presente ancora.
Con chi era stata la collutazione?
Non lo aveva
lui saputo, né altri ipotizzato
credibilmente, mistero
era l’oscuro avvenimento.
Non rechi segni la persona, ma patimento.