Fernando Bandini
Vicenza, 1931 – Vicenza, 25 dicembre 2013
Propongo una vecchia intervista di Bandini (amico, lo voglio ricordare ancora una volta, anche del Ferruccio Benzoni di qualche giorno fa) fatta da Pasquale di Palmo, anche lui ottimo autore di versi. Bandini è stato un grande poeta, e come tutti i grandi poeti è stato amato e disprezzato in larga misura. Io stesso ho sentito, quando ho avuto occasione di conoscerlo, parole di stima e disistima per la sua poesia. Che era particolare, non c’è che dire, nel suo affondo nel classicismo quasi come dentro un nido, una religione, nel suo involversi spesso in poesia latina. Resta che era ed è poesia vera. Delicata. Antica e moderna al contempo il che, sostanzialmente, significa universale.
Alla memoria.
Fin dall’inizio è molto presente il forte legame con Vicenza, città con cui lei sembra instaurare un controverso rapporto di amore-odio che attraversa tutta la sua produzione poetica. Il nome stesso della città viene emblematicamente deformato nel suo contrario: «Lassù / sono salito tante volte a guardare / Aznèciv, mia città / dal nome rovesciato».
«C’erano due miti che io avevo fissi nella mente, anche se appaiono così lontani tra loro: la Charleville di Rimbaud e la Trieste di Saba. La prima rappresentava la provincia angusta e filistea che io guardavo con lo sguardo insofferente ed eversivo dell’adolescenza; la seconda il concomitante amore del proprio luogo natale, la scoperta in esso delle tracce significative della propria esistenza, in grado di diventare metafore fruibili, e non meramente individuali, del mondo. Pensavo che un poeta per giustificare la sua volontà di dire debba mettere nel mittente dei suoi versi non soltanto il nome e il cognome ma anche il “luogo” da cui scrive. Non amo le poesie che sembrano scritte in un qualunque luogo del pianeta e si effondono in una sorta di global-esperanto. Vicenza era per me, come lo è stata per il Parise del Ragazzo morto e le comete, una sorta di Praga, città vera e insieme fantastica, fatta di botteghe e stradette e anche di magie, come nei versi di Holan e di Seifert. Quindi abitata dal Golem ma anche da qualche concreta passione politica. Poi tutto nel mondo si è trasformato, le specificità del locus sono state travolte dal nuovo omologante universo del consumismo e dei mass media, e Vicenza è diventata il suo nome all’incontrario Aznèciv, uno specchio del cuore e della memoria»
Lei ha ricevuto importanti riconoscimenti per la sua attività di poeta neolatino. Da cosa deriva il suo amore per la lingua di Orazio?
«Qui penso di dover spiegare cosa significhi per me il latino, il mio esercizio (per dirla appunto col Pascoli) di “poeta in lingua morta”. Con l’implicazione pascoliana che ogni lingua della poesia è in qualche modo lingua morta perché viene messa sottovetro con canfora come fa l’entomologo con le farfalle che cattura. Da questo punto di vista anche la lingua dei poeti in dialetto è lingua morta e le parole che essi con tremore riscoprono sono quelle che nessuno o quasi pronuncia più, che usavano le madri e le nonne e che rivivono solo per merito della camera ad ossigeno della poesia. La lingua della poesia, d’altronde, non ha mai influito sul processo quotidiano e inarre-stabile degli sviluppi linguistici. È qualcosa a sé come gli “ordini seriali” di cui parla Bloch. Si alimenta indifferentemente al presente ma trae anche i suoi alimenti da remote derive dal passato. Nel nostro tempo la poesia vive l’in-più di una larga assenza di lettori, il poeta non solo “ha perduto l’aureola” ma vive una particolare condizione di solitudine, e invidia le possibilità di ascolto che hanno invece gli scrittori di romanzi. Quando Rimbaud esclama il faut être absolument moderne, non invita all’avanguardia e alla rottura con la tradizione; dice soltanto che per essere moderni bisogna rinunciare alla poesia. Ed è per questo che la sua decisione di rinunciare alla poesia diventa emblematica della crisi del poeta prigioniero nelle strettoie della modernità. Questo destino del poeta non muta, scriva esso in italiano o in sanscrito. Ma per me il latino significava qualcosa di più: era stata la lingua religiosa della mia infanzia, mi sembrava una via per ritrovare quegli “universali” ai quali la poesia dei nostri anni dolorosamente per necessità si negava, per ridisegnare, anche se con possibilità di ricezione quasi pari a zero, una visione paradigmatica dell’umano. Naturalmente sapevo di affrontare un rischio: quello di apparire un epigono di accademici esercizi di neolatino; con l’eventualità che questo giudizio venisse esteso (è accaduto) a tutta la mia produzione poetica, per cui un mio impietosissimo (e sordo) critico mi ha definito un cervello pieno di polvere».
La sua poesia, con il passare del tempo, si è sempre più orientata verso il recupero di un classicismo che non disdegna incursioni negli aspetti più dibattuti e controversi della realtà. Mi riferisco, oltre che alle composizioni in latino, alla collana di sonetti di Corona per un capodanno, inclusa nel suo ultimo libro, Meridiano di Greenwich.
«Lei è il primo, tra i miei recensori e lettori, a citare quella Corona di sonetti. Mi è sempre rincresciuto, perché la Corona aveva per me un valore programmatico, volevo con essa indicare una individualità coinvolta, come siamo tutti, nella storia; ma non giudicando la storia con astrazioni che si mutano in metafore (come succede mirabilmente in Auden), bensì partendo dalla mia (modesta di eventi) autobiografia, attraverso le svolte di un’esistenza. Nella Corona c’è la mia adolescenza, ci sono le mie letture di ragazzo (Blake e Conrad), vi si parla del mio invecchiare dentro una metamorfosi del mondo, del destino che mi ha legato alla piccola città e ai suoi “palazzi vetusti” ma dove arrivano chiari gli echi delle guerre e degli errori del secolo breve. Dire tutto questo col linguaggio tradito del Novecento era impossibile. Il Novecento – tranne qualche rilevante episodio – aborre dal “discorso”. Per dire le cose che volevo, occorreva un linguaggio reinventato con quel tanto di distacco che lei definisce un recupero di classicismo, ma era solo la necessità che un ritorno a “universali” (appunto al discorso) avvenisse sulla base di un solido rigore formale. Solo questo rigore avrebbe potuto contenere i temi e gli oggetti del mio rapporto con la modernità. Come ho scritto in un’altra poesia dovevo “mettere ai versi il morso / di qualche rima, fare della norma / la sorella del cuore”. Quindi non rinunciare al sentimento, alle increspature e ai trasalimenti dell’emozione. Così Brahms imbrigliava un mondo romantico, inquieto e mosso, in canoni e modi secolari, e già nella Mantide e la città avevo scritto: “Insegnami a far versi / Brahms alla tua maniera nella Quarta”. Naturalmente la mia era, nel quadro dei lavori poetici in corso, una posizione estremamente solitaria, esposta a incomprensioni e fraintendimenti. I miei lettori più accorti sono stati quelli che mi hanno letto con la mente sgombra da pregiudizi».
Fossero i miei versi
Fossero i miei versi quello che la neve
è per i bambini quando si svegliano
e guardano dal vetro sbalorditi la lieve
polvere caduta da lontani mondi.
Fossero i miei versi quello che l’acqua
di maggio è per i meli dalla foglia lustra
quello che il vento è per i pini (una frusta
verde che schiocca sulla selva e sul pascolo).
Quello che per i pesci guizzanti è la ghiotta
esca, per il tordo bottaccio
la trappola insidiosa fatto col setaccio
di casa ancora sporco di farina.
Capaci di catturare, capaci di ferire,
capaci di serbare un segno segreto,
un mistero d’origine nel lieto
turbinio delle cose che lievita la massa.
Fossero i miei versi quello che le stelle
sono per la notte quando esplodono in cielo
come larghi rododendri sullo stelo
d’un sospiro che veglia alle finestre.
Fossero i miei versi di bella fattura
ma nutriti di umana realtà.
Fossero i miei versi come la libertà
aria della lotta e pane del riposo.
Zampette d’uccello
E tremo sempre perché sei piccola
e la neve qui intorno così vasta,
tu fuscello di brina
che a toccarlo si spezza.
E la neve non sembra nemmeno
sentire il tuo peso.
Ma a me
ti aggrappi forte, inventi sconosciute
tenerezze carnali
con una voce d’orca che vorrebbe
spaventare anche i grandi,
ardore smisurato con zampette d’uccello.
Anapesti per un gufo
Gufo, gufo, dove sei nascosto,
tu che fai vibrare di tristezza
la notte taciturna sopra cui la luna
si affaccia con i suoi corni d’argento?
Non si capisce se sei qui vicino
o se viene da lontano il tuo verso fioco
(a meno che il suono della tua voce
non salga dal fondo dell’Erebo).
Fratello di uccelli notturni
quando canti nella notte profonda
tu ci rammenti l’eterno e le cose ultime,
altro che cattivi presagi, come si crede.
Sembra piuttosto una rauca ninna-nanna,
il tuo gemito tra le ombre.
Allora su, chiudiamo gli occhi e il letto
diventi la culla dove infine
il grande sonno verrà a ghermirci.
Quattro passi
Forse perché c’è qualche
parentela tra cicuta e mandorlo
(e lo conferma in ambedue l’amaro)
mi scheggia l’osso la pallottola
diretta ad altri. Forse
perché c’è qualche oscura
connivenza tra la neve e il fuoco,
nel refolo che passa
sento frusciare i piedi dei vampiri
lungo gli asfalti della città lontana.
Futuribili
Non ci sono serrature alle porte
dopo le bombe.
Si può entrare e uscire a piacimento
c’è un viavai di guerrieri.
Gettano biglie d’acciaio
contro i vetri superstiti,
saccheggiano,
fanno all’amore sul pavimento
delle cucine vuote.
Io vorrei ritrovare la regina Ginevra
ma sono troppo stanco.
Sulla strada per Gorre è stata violentata
da un birmano e da un greco.
Il filo del discorso
Da quadro a quadro il filo del discorso seguire
senza che troppa tensione lo spezzi
o becco ostile lo intacchi
da sinopia a sinopia
nel pomeriggio di pioggia che fa
alto lo scroscio
finché il cielo rispunta dalle nuvole
e ci prende per mano
verso un viola-melanzana-yaèl
con passeri sulle torri che rimproverano
gli indugi (vocine squillanti di collera)
di chi non vuol muoversi
di chi resta attaccato al soffitto
come un moscone grasso.
E dal viola al nero
il filo del discorso ostinati seguire
verso i fischi di un’alba melone-amira finché
oh, Har hatzofim!
ali ha ciascuno al cuore ed ali al piede.
Règia Parnassi
Fastidio certo un paesaggio dal nulla
col Règia Parnassi evocare
e non possedere il divino
istinto che dice con nuove parole
la luce di settembre.
Evocare dal nulla
il merlo poliglotta, inghiottire sospiri
per una moto che romba nel chiaro
e per l’uva, per l’uva
che non ha più il privilegio
di apollinei palati.
Ma disamo la morte malgrado
le sinistre sirene di film e poemi
la disamo e distacco
da un soffio la bolla più pura,
la più precaria e inutile libero
dalle parole.
E rataplan trovare da splendere
su tutto con bolle precarie
e vedendole alzarsi nel vento
non soprassedere
sapendo che a esse è negato
di durare oltre l’attimo, cingersi
di alone immortale.
Nessuna parola
Così abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la fa.
Tutto è silenzio dopo la schianto dei rami,
nessuna parola aveva colto nel segno.
Lapidi per gli uccelli
I
Il disegno del tempo non aveva previsto
i nuovi aspetti della voluttà
quando la primavera scintilla sui vetri
o in pioggia si scioglie dentro fogne e cortili.
Nel lampo di cristalli e allumini
il colore della terra si svela
per indizi malcerti, sebbene qualcosa
d’insolito urge il sangue. Ora le ombre
si fanno più distinte nel chiaro,
i rumori delle stanze si confondono
ai cori dei clacson
e i quartieri tremano al vento favonio, segnale
della dea che rinasce divum hominumque voluptas.
Torna il suo soffio vitale e s’impenna
su gasometri e torri
dentro l’azzurro così vasto e quieto.
Allora spiegami tu cosa scrivere
se saccheggiato è il mondo e il poeta una logora
istituzione fra tante. Bambini,
fuochi-fatui-bambini,
accesi un momento su una terra di fosfori
e sepolture gridano.
IX
E tutta questa gente che mi supera
senza voltarsi indietro, non badando agli ehilà
che grido alle sua spalle
(spalle piegate in avanti nello
sforzo di andare più in fretta più in fretta).
Non li ho veduti in viso e non mi hanno guardato.
Erano indifferenti agli incontri sporadici
ai saluti e agli allarmi
E vanno (me lo mormora la mia bile crepata)
al posto che anch’io so, che vorrei anch’io.
Con nuche altere e certezze nel passo
caracollante e superbo quali
nella mia vita non ho mai osato.
Ma io non vado verso, io mi sono fermato,
per questo qualcosa riesco a vedere.
XIV
Lui non credeva che
fossero morti tutti gli uccelli e i fiori
malgrado le notizie dei giornali
e il colore del cielo ormai caduto
in mille pezzi.
Lui per i monti invasi
dalle vespe in collera del nevischio
vagava e non aveva per quel mondo
tante volte pestato con trepida
felicità, non aveva da opporgli
che la noia del sangue.
E la neve dove le scarpe
d’amianto stampavano orme copriva
formicolanti città dalle mille
zampine…
E lei lontana così lontana
in quelle sue tenebre,
uscita ormai dagli alberi e dal vento,
si toccava la faccia
per ritrovarsi e volentieri avrebbe
piantato i denti candidi e minuti
in qualche gola vivente pur di
riavere ancora nelle vene il fiotto
del suo bel sangue
e i bioccoli di lana sulle siepi
e i sassi e i tordi…
e ora lui nella sua tuta
d’argento per strapparla
agl’inferi doveva rinunciare
ai mille piani immaginati,
guardare avanti e non curare il rombo
di sotterranee macchine.
Fendeva il fioco barlume che un vento
intermittente soffia dal profondo,
e l’ombra dell’amata lo superava
esile e lunga; finché
promemoria di un corpo, fantasma
di un fantasma svaniva
in una nuova densa oscurità.
Alle spalle sentiva il ronzio
del robot: lento
esecutore dei patti e custode
di quella morte che gliela faceva
remota, ancora la relegava
nell’indefinitezza.
Così pesantemente avanza
senza voltarsi namque hanc dederat legem
inferna dea,
risalendo da tonfi e da odore
di fissile polvere, rigido il collo
che al muscolo fiaccato
dal casco di cristallo era un acuto
dolore. E quando
si fu girato (ma perché?), al colmo
di un cieco impulso si era girato (per
vedere cosa?) – solo allora seppe.
Lei gli gridava: “Mi riportano sotto.
Addio. Ricordami. Non condannarmi se
tendendo a te le mani non più tua…”.
E allora seppe quanto
fosse quella galassia desolata.
E lei
che il sottosuolo chiuderebbe nel suo
impenetrabile grembo sottratta
alla luce, negata per sempre
al potere della parola
si allontanava in fretta
verso il rumore della città di Dite.
Dedicata ai satelliti dei principi
VI
E sventolanti immagino, o città
bandiere sui tuoi tetti, in sogno ascolto
suoni di corno in via Catena e il murmure
della burrasca che dilava
le statue e i passanti in fuga.
Oppure ti contemplo mentre cade
dal cielo basso un’invernale manna
rendendo calma e candida e compatta
l’aerea inafferrabile realtà
del tuo essere, del tuo provocarci.
Allora esco dalla nebulosa
delle mie mentali creazioni
ricevi l’orma della mia scarpa. Il pugno
come una palla di neve ti comprime.
Amnesia
Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.
E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.
Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?
Plazer
In questo azzurro di settembre che si dilata
oltre il confine dei miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti ignorando
questo mio torrido angolo di sete.
In quell’altrove fiori d’ombra sbadigliano
alla sera di un’isola abitata
dai corpi adolescenti di Nausicae.
Non le vedrò dal mio raro trifoglio:
creste in fiore riarse dalla polvere
grucce al riposo di magre locuste.
Oltre il confine dei miei occhi il mondo
per qualche nuova sua intenzione scalpita
che io non so né mi restano giorni
per saperne di più. La notte penso
di là dalle mie tenebre una Circe
che si cala nel balsamo del mare.
Poesia scritta a Praga
Mi piacerebbe essere sepolto
a Mala Strana
in uno di questi silenziosi giardini
dove viene a svernare la cincia oltremontana
Che mi giacesse accanto
mia moglie innamorata di ponte Carlo
Il ponte è a pochi passi anche se solo
nel giorno del Giudizio potremo attraversarlo
Verrebbe a farmi visita
l’ombra di Halas quando muore il giorno
Abitava qui attorno, m’insegnerebbe
Il nome della prima stella
Ma Azneciv città che ha i suoi corvi
e i suoi golem pretende le mie ossa
Ci sarà qualcuno che si ricordi
di Bandini? Che sopra la sua fossa
rechi i fiori che amo (aquilegie, asfodeli)
e si fermi un poco a parlare con me?
Perché il mio cuore era di re
ma non avevo un regno né fedeli