Quasi due anni fa mi era stato commissionato, da un Editore pordenonese, questa (corposa) antologia di poesie per bambini attraverso i secoli. La mia scelta era stata più sugli ultimi due secoli (con qualche autorevole eccezione) in quanto il materiale era veramente troppo ampio e vasto per poterne fare un’antologia al minimo rappresentativa (di cosa poi, nemmeno io lo so, ma al tempo questa era la domanda che mi assillava). Già così il lavoro può essere criticato su molti versanti, anche se spero il lettore apprezzerà la ricerca di piccole chicche inedite e inaudite, altrimenti introvabili e poco conosciute. Con una piccola ricerca minuziosa (per quanto mi è stato possibile) tra carte, cartoline, e libri molto molto vecchi.
Ho cercato un equilibrio tra nomi di chiara fama e testi che mi parevano degnissimi di nota. Il lavoro devo dire mi soddisfa, e dato che l’Editore di cui sopra non si è più fatto sentire (probabilmente non ha considerato l’opera all’altezza delle sue aspettative) la pubblicherò a breve come Samuele Editore, risolte le impellenze di legge sull’uso di testi altrui.
Propongo qui il lavoro come regalo di Natale a tutti i bambini e a tutti i bambini che gli adulti sono stati (per parafrasare De Saint Exupery). Il titolo Scarabattole deriva da un libro di Giovanni Giudici. Mi sono permesso di inserire anche qualche amico (Giacomo Vit, Renato Pauletto).
Buon Natale. Alessandro Canzian
SCARABATTOLE
a cura di Alessandro Canzian
Aleksàndr Blok
Per la città correva un uomo nero.
Si arrampicava a spegnere i lampioni.
Lenta, bianca l’aurora si avvicinava,
salendo assieme all’uomo sulla scala.
Là dov’erano quiete, morbide ombre
– le gialle strisce dei lampioni a sera, –
la prima luce ha coperto i gradini,
penetra da tendine e da spiragli.
Ah, com’è scialba la città sull’alba!
L’omino nero piange sulla via.
(Poesie, Guanda, Parma 1975)
Aldo Palazzeschi
Vi sono alla proda del tetto
quattordici teste di marmo
corrose e annerite dal tempo.
La gente le chiama “i fantocci”.
Il grande castello è senza finestre.
La piccola porta di legno, corrosa dal tarlo,
è scossa dal vento e sembra cascare.
La gente passando si volge e procede
davanti al castello ch’è senza finestre.
Si sa di broccati, di seggiole d’oro,
di mobili grandi cosparsi di gemme,
di cofani zeppi di perle e rubini: un tesoro.
La gente passando si volge e procede
davanti al castello ch’è senza finestre.
La piccola porta di legno, corrosa dal tarlo,
è scossa dal vento e sembra cascare,
si dice: “dal tetto si vede il bel mondo!”.
E solo “i fantocci” lo stanno a guardare.
La fontana malata
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete
chchch…
È giù nel
cortile
la povera
fontana
malata:
che spasimo
sentirla
tossire!
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace,
di nuovo
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla;
si tace,
non s’ode
rumore
di sorta;
che forse…
sia morta?
Che orrore!
Ah, no!
Rieccola,
ancora,
tossisce.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…
Rio bo
Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però…
c’è sempre disopra una stella,
una grande, magnifica stella,
che a un dipresso…
occhieggia con la punta del cipresso
di rio Bo.
Una stella innamorata?
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città.
(Paesi e figure, Poesie, Mondadori, Milano 1990)
Vladimir Majakovskij
Il cavallino di fuoco
Il bambino chiede al padre:
“Vorrei tanto un bel cavallo,
ho deciso che da grande
vorrò esser un cavaliere.
E per questo a cavalcare
voglio adesso incominciare”.
Anche il babbo si è convinto
e decidono di andare
un cavallo a comperare.
Colmi sono gli scaffali
d’ogni sorta di balocchi;
nel negozio invece ahimè
di cavalli non ce n’è!
Cosa dire? Cosa fare?
Sì… dal mastro si può andare
che i cavalli sa approntare.
Questo mastro pensa e dice:
“Qui ci vuole un buon cartone
per piantare l’ossatura
che va fatta con gran cura!”
Tutti e tre in fila indiana
vanno dritti alla cartiera.
“Carton fino o carton grosso?”
chiede ai tre un omaccione.
E dà loro tre bei fogli
del miglior cartoncino
e la colla da spalmare
perchè possano ben saldare.
Cavalcare: una parola!
Non si corre senza ruote.
Vi provvede il falegname
con prontezza e precisione.
Svelto e alacre in un minuto,
taglia, pialla, sega, lima…
e le ruote eccole qua.
Ora manca la criniera!
Via di corsa per cercare
fra le setole e le spazzole,
chi dia loro la maniera
di crear coda e criniera.
Ben gentile è l’artigiano
che è contento di donare
peli e ciuffi in quantità.
Che distratti! Che sbadati!
Chi ha pensato per i chiodi?
“Ecco a te quel che ti serve”
dice il fabbro compiacente.
Con i chiodi e il cartoncino,
con le setole e la colla
ben sbiadito è il cavallino.
Un pittor dobbiam trovare!
Un pittore ecco è già pronto
ben felice di aiutare
il cavallo a colorare.
Per nessuno c’è più tregua,
la giornata è laboriosa
col migliore materiale
costruito è l’animale.
Tutti insieme in gran daffare
incollando e ritagliando
or preparan zampe e dorso
or gli mettono un gran morso.
Batti e batti sopra il chiodo,
lima e pialla quelle ruote,
rosso e giallo usa il pittore
e il cavallo è uno splendore.
Trotta innanzi, trotta indietro:
come è ardente il suo galoppo!
Son turchini i grandi occhi,
macchie gialle ha sui ginocchi.
Con l’incedere marziale,
con la sella di gran pregio,
con la ricca bardatura,
va col bimbo alla ventura.
(Il cavallino di fuoco, Emme Edizioni, Milano 1973)
Federico Garcìa Lorca
Arbolè arbolè
Arbolè arbolè
secco e verde.
La bambina dal bel viso
raccoglie raccoglie olive.
Il vento, amico di torri,
la prende per la cintura.
Passan quattro cavalieri
sopra cavalle andaluse,
di verde e azzurro vestiti
con lunghi mantelli scuri.
“Bambina, vieni a Còrdoba.”
La bambina non li ascolta.
Passano tre toreri
che hanno stretta la cintura,
vestiti color arancio
con la spada argento antico.
“Vieni a Siviglia, bambina.”
La bambina non li ascolta.
Quando la sera si fece
violetta, di luce vaga,
passò un giovane che aveva
rose e mirti di lana.
“Vieni a Granada, bambina.”
La bambina non lo ascolta.
La bambina dal bel viso
raccoglie, raccoglie olive,
col braccio grigio del vento
che la tiene per la vita.
Arbolè arbolè
secco e verdè.
(Cinque lire di stelle, Bompiani, Milano 1970)
Sergio Corazzini
– Perché, mia piccola regina,
mi fare morire di freddo?
Il re dorme, potrei, quasi,
cantarvi una canzone,
ché non udrebbe! Oh, fatemi
salire sul balcone!
– Mio grazioso amico,
il balcone è di cartapesta,
non ci sopporterebbe!
Volete farmi morire
senza testa?
– Oh, piccola regina, sciogliete
i lunghi capelli d’oro!
– Poeta! Non vedete
che i miei capelli sono
di stoppa?
– Oh, perdonate!
– Perdono.
– Così?
– Così…?
– Non mi dite una parola,
io morirò…
– Come? per questa sola
ragione?
– Siete ironica… addio!
– Vi sembra?
– Oh, non avete rimpianti
per l’ultimo nostro convegno
nella foresta di cartone?
– Io non ricordo, mio
dolce amore… Ve ne andate…
Per sempre? Oh, come
vorrei piangere! Ma che posso farci
se il mio piccolo cuore
è di legno?
(Poesie, Rizzoli, Milano 1992)
Maria Pawlikowska Jasnorzewska
Aeroplano
L’aeroplano, il più bello degli uccelli bianchi,
vola nella distanza sopra un grigiore di nubi.
Ha l’ala di cavalletta. È audace come l’aquila.
E ha gli occhi e il cuore dell’uomo.
(da Poeti polacchi contemporanei, Silva Editore, Milano 1961)
T.S. Eliot
Il nome dei gatti
E’ una faccenda difficile mettere il nome ai gatti;
niente che abbia a che vedere, infatti,
con i soliti giochi di fine settimana.
Potete anche pensare a prima vista,
che io sia matto come un cappellaio,
eppure, a conti fatti,
vi assicuro che un gatto deve avere in lista,
TRE NOMI DIFFERENTI. Prima di tutto quello che in
famiglia
potrà essere usato quotidianamente,
un nome come Pietro, Augusto, o come
Alonzo, Clemente;
come Vittorio o Gionata, oppure Giorgio o Giacomo
Vaniglia –
tutti nomi sensati per ogni esigenza corrente.
Ma se pensate che abbiano un suono più ameno,
nomi più fantasiosi si possono consigliare:
qualcuno pertinente ai gentiluomini,
altri più adatti invece alle signore:
nomi come Platone o Admeto, Elettra o
Filodemo –
tutti nomi sensati a scopo familiare.
Ma io vi dico che un gatto ha bisogno di un nome
che sia particolare, e peculiare, più dignitoso;
come potrebbe, altrimenti, mantenere la coda
perpendicolare,
mettere in mostra i baffi o sentirsi orgoglioso?
Nomi di questo genere posso fornirvene un quorum,
nomi come Mustràppola, Tisquàss o Ciprincolta,
nome Babalurina o Mostradorum,
nomi che vanno bene soltanto a un gatto per volta.
Comunque gira e rigira manca ancora un nome:
quello che non potete nemmeno indovinare,
né la ricerca umana è in grado di scovare;
ma IL GATTO LO CONOSCE, anche se ma lo confessa.
Quando vedete un gatto in profonda meditazione,
la ragione, credetemi, è sempre la stessa:
ha la mente perduta in rapimento ed in contemplazione
del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome:
del suo ineffabile effabile
effineffabile
profondo e inscrutabile unico NOME.
(Il libro dei gatti tuttofare, Bompiani, Milano 1990)
Walter De La Mare
Il topolino
C’era un topolino piccino piccino
che abitava a Gibilterra.
Non riusciva a prendere neppure un pezzettino di formaggio
a causa del micino-gattino-birichino.
E disse al formaggino:
“Oh, mi piacerebbe tanto mangiarti,
se non fosse per le zampette crudeli
di quel micino-gattino-birichino.”
(Storie di animali, Longanesi, Milano 1984)
Clemente Rebora
Ninna nanna delle risaiuole lombarde
Ninna qua, ninna là,
ninna nanna ninna nà,
va nel sonno, anima mia,
c’è la Mamma c’è il Papà,
c’è una Mamma sulla tua via,
che nel buio ti veglierà,
avanzando in armonia,
la tua notte si schiarirà,
e il tuo bel cuore sarà
svegliato in verità;
c’è un gran giuoco in mezzo ai guai,
che fidando scoprirai,
c’è una luce laggiù, in fondo,
che fa cenno a questo mondo,
meritando a poco, a poco
la tua vita giocherà,
e sfavillerà.
Non temer, se l’ombra spia,
ché il tuo sole spunterà,
segui ben la voce mia,
l’ansia tua si snebbierà,
e il tuo cuore andrà,
dove il mio pure va.
(Le poesie, Garzanti, Milano 1988)
Rudyard Kipling
Lettera al figlio
Se puoi vedere distrutto il lavoro di tutta la tua vita
e senza dire una parola ricominciare,
se puoi perdere i guadagni di cento partite
senza un gesto e senza un sospiro di rammarico,
se puoi essere un amante perfetto
senza che l’amore ti renda pazzo,
se puoi essere forte senza cessare di essere tenero
e sentendoti odiato non odiare, pure lottando e difendendoti.
Se tu sai meditare, osservare, conoscere,
senza essere uno scettico o un demolitore,
sognare senza che il sogno diventi il tuo padrone,
pensare senza essere soltanto un pensatore,
se puoi essere sempre coraggioso e mai imprudente,
se tu sai essere buono e saggio
senza diventare nè moralista, nè pedante.
Se puoi incontrare il Trionfo e la Disfatta
e ricevere i due mentitori con fronte eguale,
se puoi conservare il tuo coraggio e il tuo sangue freddo
quando tutti lo perdono.
Allora i Re, gli Dei, la Fortuna e la Vittoria
saranno per sempre tuoi sommessi schiavi
e, ciò che vale meglio dei Re e della Gloria,
Tu sarai un uomo.
(Lettera al figlio, Rizzoli, Milano 2010)
Elli Michler
Ti auguro Tempo
“Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare, non
solo per te stesso,ma anche per donarlo agli altri.
ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti
e non soltanto per guardarlo sull’orologio.
Ti auguro tempo per toccare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita”.
(Dir zugedacht, Don Bosco Verlag, München 2010)
Angelo Petrosino
Un bambino che legge
Un bambino che legge
si dimentica dei piedi
ha schegge di luce
negli occhi ardenti.
Un bambino che legge
è un bambino che va
lontano
senza che nessuno
lo prenda per mano.
(inedita)
Kahlil Gibran
Sui figli
E una donna che reggeva un bambino al seno disse:
parlaci dei Figli.
E lui disse:
i vostri figli non sono figli vostri.
Sono figli e figlie della sete che la vita ha di sé stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché vivano con voi non vi appartengono.
Potete donare loro amore ma non i vostri pensieri: essi hanno i loro pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime: esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.
Potete tentare di essere simili a loro, ma non farli simili a voi: la vita procede e non s’attarda sul passato.
Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell’Arciere;
poiché come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell’arco.
(Tutte le poesie e i racconti, Newton, Roma 1993)
Janus Korczack
Dite
Dite:
è faticoso frequentare bambini.
Avete ragione.
Poi aggiungete:
bisogna mettersi al loro livello,
abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli.
Ora avete torto.
Non è questo che più stanca.
E’ piuttosto il fatto di essere obbligati ad innalzarsi
fino all’altezza dei loro sentimenti.
Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi.
Per non ferirli.
(Quando ridiventerò bambino, Luni, Milano 1995)
D.W. Winnicot
In ogni bambino
In ogni bambino
c’è una scintilla di vita:
questo impulso verso
la crescita e lo sviluppo
fa parte di lui,
è qualcosa
con cui è nato e che lo
sollecita ad andare
avanti
in modi che non
dobbiamo nemmeno
cercare di capire.
(Il bambino e il mondo esterno, Giunti e Barbera, Firenze 1973)
Loris Malaguzzi
Invece il cento c’è
Il bambino
è fatto di cento.
Il bambino ha
cento lingue
cento mani
cento pensieri
cento modi di pensare
di giocare e di parlare
cento sempre cento
modi di ascoltare
di stupire di amare
cento allegrie
per cantare e capire
cento mondi
da scoprire
cento mondi
da inventare
cento mondi
da sognare.
Il bambino ha
cento lingue
(e poi cento cento cento)
ma gliene rubano novantanove.
La scuola e la cultura
gli separano la testa dal corpo.
Gli dicono:
di pensare senza mani
di fare senza testa
di ascoltare e di non parlare
di capire senza allegrie
di amare e di stupirsi
solo a Pasqua e a Natale.
Gli dicono:
di scoprire il mondo che già c’è
e di cento
gliene rubano novantanove.
Gli dicono:
che il gioco e il lavoro
la realtà e la fantasia
la scienza e l’immaginazione
il cielo e la terra
la ragione e il sogno
sono cose
che non stanno insieme.
Gli dicono insomma
che il cento non c’è.
Il bambino dice:
invece il cento c’è.
(I cento linguaggi dei bambini, Edizioni Junior, Bergamo 1995)
Vivian Lamarque
Il Signore del bastimento
Abitava su un bastimento fermo in mezzo al mare.
Gli dicevano sempre torna a casa ma lui non ci pensava affatto.
Si spostava con calma da poppa a prua, guardava le onde, le
stelle quando c’erano, l’altezza del sole.
I pesci ormai lo conoscevano.
Un ippopotamo tutte le notti, verso mezzanotte, mezzanotte
e un quarto, usciva dal mare, lo guardava fisso come per
chiedergli chi sei?
(Il Signore degli spaventati, Pegaso Editore, Forte dei Marmi 1992)
Quando in terra
scende il buio
e ogni cosa
si fa nera
non temere
tu bambino
non temere
tu bambina
perchè la notte
nera nera
è solo un giorno
in vestito da sera.
Mamma ho paura
ho sentito un passo.
Non temere mio bambino
è la notte che avanza
a passo di danza.
Mamma ho paura
ho visto un topo
mi guardava
era proprio lì.
Non temere mia bambina
era un sogno della notte
come un film, un dvd.
Mamma ho paura
ho sentito un passo.
Non temere mio bambino
la notte è entrata
nel suo lettino.
(Poesie della notte, Rizzoli, Milano 2009)
Letterina di Natale
È arrivata una letterina
anzi sono un milione
anzi sono un miliardo
c’è una lettera
per ogni bambino
è una letterina di Natale
è una letterina
di Babbo Natale.
Evviva apriamo!
Evviva leggiamo!
Cari bambini
sono stato buono
proprio buono tutto l’anno
ecco l’elenco
l’elenco dei doni
grazie mille anticipate
ecco l’elenco
incominciate:
Uno sciroppo
in damigiana
ho tanta tosse
e le renne idem
cento litri di latte
e cento chili di fieno
e uno scatolone
di medicine
per quando ho la febbre
a trentanove
e non posso uscire
che nevica o piove.
Degli stivali
mi raccomando rossi
e un berretto nuovo
e… ccì! eccì!
e un chilometro di fazzoletti
e anche un nuovo dvd.
Ma come???
E niente a noi???
“Per quest’anno
faremo il contrario
siete d’accordo?
Non c’è avere
senza dare
per un anno si può fare…”
(Poesie di dicembre, Emme Edizioni, San Dorligo della Valle 2010)
Edward Lear
C’era una signorina il cui naso
C’era una signorina il cui naso
le arrivava alle scarpe di raso;
assoldò quindi una vecchia signora,
dall’andatura molto decorosa,
che reggesse quel portento di naso.
C’era un vecchio in riva al mare
C’era un vecchio in riva al mare
che non sapeva mai cosa fare;
si mise quindi a correre con zelo,
fin che il sole lo fece tutto nero,
quel forsennato vecchio in riva al mare.
(Il libro del nonsense, Einaudi, Torino 1970)
Nico Orengo
Canzonette
In una tazza la Camomilla
si mette a dormire
bionda e tranquilla.
*
Il grillo sbadato
ha lasciato sul prato
la sua gamba di violino.
*
Nel ’68 un merlo magro d’Ormea
faceva la corte alla rosa Tea.
*
La patella che balla
sui fondali di Portofino
non chiude occhio
fino al mattino.
*
La mela Rosmarina
fa ron-ron
alla mattina.
*
La triglia di Camogli
sbadiglia sugli scogli
la triglia di Zoagli
piange ancora i propri sbagli.
La biro di Bice
La biro di Bice
mi dice:
non sono felice
di scrivere a te.
*
Un merluzzo ruzzolò
dalla Cina fino al Po.
Con la schiena arrotolata
al primo che incontrò
chiese della marmellata.
*
Un leone beone
seduto al caffè
faceva il cafone
con la figlia del Re.
*
Sulla spiaggia di Paraggi
una zebra abbronzata
urlava disperata:
ho perso la fidanzata.
*
Una barca da sola sciolse la vela
e a piccoli morsi mangiava una mela.
*
Un bruco stropicciato
sternutiva nel prato:
soffriva la febbre del fieno,
ma del prato non poteva farne a meno.
*
Un aereo volò e volò
e uno strappo nel cielo lasciò.
*
Intorno alla minestra
c’è una lepre che fa festa.
Mi tira piselli e maccheroni,
coltelli e cucchiaioni.
Ma dura da qui a lì
perchè poco dopo è già in salmì.
*
Un passero col cassero
della nave corsara
chiese una maglia marinara
perchè tutti lo sapessero.
*
Per non dire una bugia
la pioggia mogia
che dal cielo scendeva
sotto le scale si nascondeva.
*
A B,
non far così.
*
Il re del Portogallo
suonando la cornamusa
urtò un gallo
e non gli chiese scusa.
*
La lumaca
che dondola sull’amaca
pigramente
pensa a meno che niente.
*
La luna con la chioma bruna
si sentiva bene
e con Saturno si mise insieme.
*
Il fiume Po
le gambe accavallò
e tutti i pesci attorcigliò.
*
Una sardina cercava
un trifoglio sotto uno scoglio,
non lo trovò
e senza fortuna se ne andò.
*
Correva l’ago
dietro lo spago.
E lo spago di fretta
gli urlava: la smetta,
la smetta.
*
Un albero di pero
starnutiva etcì, però
e il freddo per cortesia
si infilò in terra ed andò via.
*
Il fuoco nel camino
ritagliava una cascata
di acqua gelata,
pensava all’estate,
con trote fresche e bagnate
e signorine bionde e sdraiate.
*
La palla che balla al caffè
prima beve del latte
e poi chiede un frappè.
(Canzonette, Einaudi, Torino 1981)
Bertold Brecht
Ciascuno a modo proprio
Verdi i cespugli
nel giardino, a Pasqua
mentre i pioppi attendono
vicino all’acqua.
Là una nuvola
si vuole affrettare,
qui un’altra, bianca,
vuole indugiare.
Lavano i piatti
fratello e sorella.
Lui lentamente
e lei più in fretta.
Solo il nostro ciccio
lui non collabora,
resta seduto
e mangia la pappa.
I bambini giocano
I bambini giocano alla guerra.
E’ raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
E’ la guerra.
C’è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci;
che la tua mamma
non è solo tutta tua;
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame
non avere freddo
non avere paura.
(Poesie 1933-1956, Einaudi, Torino 1977)
Gli uccelli aspettano in inverno davanti alla finestra
Io sono il passero.
Bambini, la mia fine è quasi certa.
E sempre vi chiamai nella trascorsa annata,
quando il corvo era di nuovo
in mezzo all’insalata.
Vi prego, una piccola offerta.
Passero, fatti avanti.
Passero, ecco il tuo grano
e tante grazie per il tuo lavoro.
Io sono il picchio rosso.
Bambini, la mia fine è quasi certa.
E picchio tutta la stagione estiva
e distruggo ogni bestia nociva.
Vi prego, una piccola offerta.
Picchio, fatti avanti.
Picchio, ecco il tuo verme.
E tante grazie per il tuo lavoro.
Io sono il merlo.
Bambini, la mia fine è quasi certa.
Eppure sono io che nel grigio del mattino
cantai tutta l’estate nell’orto del vicino.
Vi prego, una piccola offerta.
Merlo, fatti avanti.
Merlo, ecco il tuo grano.
E tante grazie per il tuo lavoro.
(da Tante poesie, Vita e pensiero editrice, Milano 1990)
Kostas Kariotakis
Michelino
Chiamarono soldato Michelino.
Tutto contento e con aria marziale,
partì con Panaioti e Mariolino.
Ma neppure “spall’arm!” seppe imparare.
E brontolava: “Signor caporale,
al mio paese lasciami tornare!”.
All’ospedale, l’anno successivo,
guardava il cielo senza mai parlare.
Guardava lungi un punto fisso e vivo
con l’occhio pieno di malinconia,
e pareva pregare e scongiurare:
“Lasciatemi tornare a casa mia”.
Poi Michelino da soldato è morto.
Con Panaioti e Mario, altri soldati
all’ultima dimora l’hanno scorto.
La fossa hanno coperto per benino,
però o piedi di fuori hanno lasciati:
era un po’ troppo lungo, il poverino.
(Fase, in “Almanacco dello Specchio”, n. 7, Mondadori, Milano 1978)
Hugo Ball
Gatti e pavoni
baubo sbugi ninga gloffa
siwi faffa
sbugi faffa
olofa fafamo
faufo halja finj
sirgi ninga banja sbugi
halja hanja golja biddim
mâ mâ
piaûpa
mjâma
pawapa baungo sbugi
ninga
gloffalor
(da L’avventura dada 1916-1922 di G. Hugnet, Mondadori, Milano 1972)
Theodore Roethke
L’ippopotamo
Che cosa gli manca – la Coda o la Testa?
Per conto mio è il suo Avanti che arretra!
Vive di Fieno, Carote, e di Porro;
per sbadigliare gli ci vuole Un Giorno –
A volte penso che vivrò così.
La sedia
Questa è buffa, riguardo a una Sedia:
non ti viene mai in mente che c’è.
Per sapere che una Sedia è davvero una Sedia,
devo ogni tanto metterti a sedere.
(Sequenza nordamericana e altre poesie, Mondadori, Milano 1966)
August Strindberg
Il canto dell’usignolo
Ih, ih, ih , ih , ih! Var de vi? De var vi!
Vi var de! Voj, oj, oj, oj, oj, oj!
Titta, lullan, lull-lull-lull-lull-lull – var de vi?
Ihih! Titta! lullan; den girar, arrrrrrrrrrr-itz!
Lull-lull-lull-lull-lull-lull! Var de vi? Titta!
Sir’u, sir’u, sir’u?
Dadda! – Dadda! Sjätt, sjätt, sjätt, sjätt, sir’u, sir’u?
Nappen; napp, app, app, app, app, app!
Vit, vit, vit, vit, vit, vit, sir’u lillan!
Tut, tut, tut, tut, tut, tut, sat’n, sat’n, sat’n si!
Lip, lip, lip, lip, lip, lip, ih!
Så, så, så, nä, nä, nä, sa, sa, sa, nå!
Ji, jih, guh, guh, guh, guh, gu’hjälp, dadda, aitsch!
(Notti di sonnambulo a occhi aperti, Einaudi, Torino 1974)
E. E. Cummings
pss sst
pss sst
spiritelli
in punta
d’alluce
piccole streghe
pepate e folletti
sonaglianti
piglia-dai piglia-dai
ranocchietti felici
saltellanti
in velluto
topine pizzicate
con occhi
furtivi corrono e frusciano e
nasconditinasconditi
psst
psst scopa-scopetta bada alla vecchia
col porro sul naso
quel che ti fa
nessuno lo sa
lei conosce il diavolo uhh
diavolo ahu
diavolo
ahi il grande
verde
diavolo che
zompa
zompa
zompa
diavolo
…
villla
*
!
o (rotonDa) luna,co
me
più (toN
da
di rotOnda)vaghi;
intera
mente e (più Tonda)
do
:rata(Rotondis
sima)
(Poesie, Lerici, Milano 1963)
Robert Graves
Le gambe
C’era questa strada
e portava in cima alla collina
e dal colle scendeva giù
avanti e indietro, e giù e su.
E c’era un traffico di gambe,
gambe dai ginocchi in giù,
gambe che andavano, che venivano
che non si fermavano più.
E i rigagnoli gorgogliavano
per la pioggia straripante,
e i bastoni sul selciato
ciechi picchiavano, picchiavano.
Ciò che trascinava le gambe
era l’inarrestabile
l’insensato, lo spaventoso
fato d’essere gambe.
Gambe per la strada
la strada per le gambe,
risolutamente senza meta
in una direzione, in entrambe.
Le mie gambe, perlomeno,
erano fuori da quel trambusto:
io me ne stavo intero
sull’erba al margine della via
a osservare le inarrestabili
gambe passarmi vicino
senza mai che una inciampasse
tra un passo e il successivo.
Benché il mio sorriso fosse largo
le gambe non potevano vederlo,
benché il mio riso fosse forte
le gambe non potevano udirlo.
Allora fui preso da una vertigine.
Non starai camminando anche tu
– ad un tratto mi domandai –
dalle ginocchia in giù?
Mi toccai le tibie appena
e il dubbio le scatenò:
avevano corso in venti pozzanghere
prima che potessi riacciuffarle.
(Lamento per Pasifae, Guanda, Parma 1991)
D.H. Lawrence
Il piccolo della gazzella
Il piccolo della gazzella, bambini,
va dietro a sua madre per il deserto,
va dietro a sua madre allegramente a piedi nudi,
non reclamando scarpe di sorta, bambini.
Willy dalla gamba molle
Non sopporto Willy dalla gamba molle,
non lo sopporto a nessun costo,
rassegnato com’è, che se lo picchiate
si lascia picchiare due volte.
Gli elefanti nel circo
Gli elefanti nel circo
hanno ère di stanchezza intorno agli occhi.
Tuttavia si tengono ritti
e mostrano i ventri enormi ai ragazzi.
(Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1959)
Günter Kunert
Come diventai un pesce
1
Il 27 maggio alle tre si sollevarono dal loro letto
i fiumi della terra e si sparsero
sul territorio abitato. Per salvarsi
la gente a piedi o con veicoli fuggì sulle alture.
2
Quando, dopo la terribile sommossa dei fiumi,
gli oceani tuonando incalzarono sulla spiaggia
e tutto ciò che ancora c’era inghiottirono
senza distinzione, e fu un’infinità di cose.
3
Per un attimo potemmo nuotare ancora sull’acqua
poi si affondò uno dopo l’altro.
Alcuni ancora cantavano e le loro voci stridule
seguirono gli affogati nell’umida tomba.
4
Poco prima che le ultime forze mi abbandonassero
mi venne in mente ciò che un tempo m’avevano insegnato:
solo chi si trasforma non è infastidito
dal mutamento che il suo mondo subisce.
5
Vivere significa: mutarsi all’infinito.
Chi al vecchio si aggrappa, non diventa vecchio.
Così decisi di agire subito
e l’acqua non mi parve più fredda.
6
Le mie braccia si allungarono in ampie pinne
versi squame mi crebbero lentamente;
quando l’acqua mi ebbe chiuso anche la bocca,
m’ero adattato al nuovo elemento.
7
Mi lascio scivolare pigramente per oscure profondità,
e non sento né onde né vento
ma ora temo i luoghi asciutti
e che un giorno l’acqua di nuovo scorra via.
8
Poiché ridiventare uomo
quando da tempo non lo si è più,
è difficile per un come noi in questo mondo
ché l’esser uomo troppo facilmente si scorda.
(Ricordo di un pianeta, Einaudi, Torino 1970)
Kenneth Patchen
Sempre un altro punto di vista
Sali tre “gradini dorati”
supera alcuni amichevoli “leoni”
e “lo scheletro
di un re!” I “leoni”
appartengono a una donna
di cui si dice che
sia un po’ scentrata. In realtà è
un’ottima persona. Io
la ritengo più incompresa che pazza.
Io abito alla porta di fianco.
Nella
casa con i cactus
che crescono
attraverso il tetto.
Seduti a bere mi racconta
storie del tempo
in cui lei era una
Regina. Nelle sere piovose.
(Lo stato della nazione, Guanda, Parma 1967)
Nanni Balestrini
Gio e Gia
ride
stai lì
guarda
ma cosa fai
tutta storta
qui è caldo
lo faccio io
io lo so fare
l’ho detto io
ti arrivo qui
è questa qua
così col nodo
ti ho fermato
sono le undici
guardalo pieno
mi ha fermato
io sono di qua
dammelo è mio
lo butto in alto
no l’ho detto io
adesso lo prendi
dove batte GIA
da nessuna parte
che l’ha nascosta
prima lo asciugo
ho indovinato io
vuoi smettere di
mi dai la calamita
c’è scritto diverso
sí ma non lo dico
io devo andare a O
ahia il mio braccio
facciamolo insieme
me lo sono dato io
ma io lo sapevo già
è calda la tua mano
chi è che l’ha messo
poi io lo leggo tutto
si capisce che ci sono
guarda ti fa sbagliare
io sono 68 GIO è 15
non così che lo rompi
ma poi non vanno più
quello che dici perché
guarda che ti schiaccio
quella griglia si è rotta
li tiri via sai cosa ti do
no ma la vuoi smettere
e io invece ce lo lascio
ma cosa scrivi un tema
perché così sta attaccato
qua sbandava anche qua
no mi ha presa la penna
non ce l’ho nemmeno io
non si capisce mica tanto
mettilo aperto spalancato
continua a cadermi quello
e io te l’ho dato indietro
ne compri un altro uguale
ma qua non va giù l’acqua
ti è andato a finire in faccia
perché vai fuori dal foglio
guarda cosa ti ho fatto fare
tu batti lì io batto la schiena
togliti che me lo fai sbagliare
sai cosa ha detto la sua pancia
vediamo con una cosa di ferro
quando ho due zeri me lo dici
adesso va ma continua a uscire
io avevo scelto questa roba qui
invece di fare così ho fatto così
e la tua falla andare con questo
non te la volevo dare io la mia
mi ha fatto male un’altra volta
ti do una scatola li metti dentro
più quella grigia di quella rossa
adesso mi metto dove ti metti te
l’hai preso poi non l’ho più vista
fanne uno così copialo da questo
ci devono essere anche questi qui
adesso mi sono spogliato ho finito
scrivi con la mano con l’inchiostro
ma il GIA vuol fare andare la mia
e qui cosa c’è scritto cosa vuol dire
dimmi un animale e io faccio il verso
vedo che qui ha fatti sbagliare vero
io lo faccio così così viene più pulito
sai che rosa lo posso fare con questo
ecco lo vedi che me lo hai fatto uscire
mi ha fatto così forte in faccia qual è
fattene un altro di questi che faccio io
fatto col filo lo devi fare così impari no
ti leggo un po’ lo sai cosa c’è scritto qui
ben ti sta perché tu volevi andare avanti
dicono che non ci devono stare questi punti
è mia e non voglio che GIO me la tocchi
un poco sono nero perché sono abbronzato
io lo faccio senza il nodo che si può tagliare
la GIO non mi lascia andare nella mia pista
i punti ci devono essere qui non qui ma qui
hai fatto un segnettino sulla carta avevi scritto
no non c’è nessuna cosa che fa quel rumore lì
e quando vanno fuori qui le metto a posto io
le pagine bianche non le tocchi se non le sporchi
fai così poi fai così te lo tiri via tutto nelle mani
non sono mica capace di scriverlo con quell’altra
si era rotta dentro e me l’ha aggiustata il dottore
quei fiammiferi che hai in tasca li metto dentro là
comprare questi qua ma ormai ci sono cosa scrivi
con le mani sporche mi ha sporcato il mio bianco
ma lo rompi a scrivere così qui c’è uno scarabocchio
è come questa ma la prima è arrotolata poi è piegata
vediamo un po’ se c’è una cosa che fa questo rumore
sento suonare trombette e tamburi e non sento niente
guarda qui c’era già il buco qui è plastica non può uscire
te ne serve uno per quello così li attacchi tutti e due insieme
qui c’è scritto GIA così se mi perdono il dito me lo riconosco
adesso la metti a posto te perchè la tua l’ho messa a posto io
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Corrado Costa
Canta una ninna-nanna secondo lo stile Araphos
chiamano
bambino/CORRERE VIA.
bambino/CORRERE VIA
non cammina ancora.
chiamano
bambino CANTARE SOLO.
bambino/CANTARE SOLO
tace.
e
bambino/TACERE?
cosa dice
bambino/TACERE?
è tardi!
è tardi!
in fondo ai territori
dell’erba
che non cresce
UOMO/UOMO
cerca
bambino/CAMPO-DI-ERBA.
bambino/CAMPO-DI-ERBA
ha gli occhi verdi e
ha gli occhi ancora
chiusi.
cercano
bambino/LUNA NUOVA.
bambino/LUNA NUOVA
è nascosto
in aria.
bambino/ARIA
non c’è.
non c’è
nessuna foglia
per dire
a bambino/VENTO
di stare fermo.
non c’è
nessuna pietra
per dire
a bambino/PIETRA
– “mettiti in movimento!”
non c’è
nessuna formagginoper dire
a bambino/FORMA
di cominciare a esprimersi.
è tardi!
è tardi!
in fondo ai territori
di pietra levigata
DONNA/DONNA/DONNA
cerca
bambino/PIETRA.
bambino/PIETRA
non cresce.
DONNA/DONNA/DONNA
cerca
bambino/ORME-DI-PESCI-
CHE-VANNO-SULLE-GAMBE
bambino/ORME…
non è passato di qui.
cerca
bambino/ORME-DI-PROCIONE
CON-OTTO-ALI-IN-PIU’?
bambino/ORME…
non è passato di qui.
ci sono solo
orme
sul territorio
e ci sono orme
sulla volta celeste
è tardi!
è tardi!
in fondo ai territori
della volta celeste
UOMO/UOMO
cerca.
– “bambino/EVOLUZIONE
non è passato di qui?”
non c’è nessuno?
non c’è nessuno
che dica
a bambino/CRESCERE
di crescere?
DONNA/DONNA/DONNA
cerca
bambino/SOGNO.
bambino/SOGNO
è sveglio.
bambino/PIOMBO-CHE-SI-
TRASFORMA-IN-ORO
ha gli occhi ancora
chiusi.
UOMO/UOMO
chiede
– “bambino/OGGI
hai visto
bambino/DOMANI?
avete visto
bambino/FORZA-CHE-
NON-HAIL-POTERE?
avete visto
bambino/FUOCO?
bambino/CHE-PIANGE-
SOLO-DI-GIOIA?
è tardi!
è tardi!
DONNA/DONNA/DONNA
chiama
– “avete visto
bambino/FIUME?
è passato di qui?”
chiamano a casa
anche
bambino/CASA.
viene
a mezzanotte
bambino/NOTTE
con
bambino/QUARTO-
DI-LUNA
è tardi!
è tardi!
cercano
bambino/TEMPO.
bambino/TEMPO
non si muove.
bambino/TEMPO
non sa che ore sono.
bambino/CHE-NON-SA-
CHE-ORE-SONO
si sveglia.
vede UOMO/UOMO
vede DONNA/DONNA/DONNA.
sono insieme.
insegnano a parlare
ai bambini/PAROLA.
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Michelangelo Coviello
Brighella
Una conta una nenia una storia
che lui presto impara a memoria
scandali rime fiori farfalle
che però fan girare le balle
amori canti millefrutti
uccelli variopinti millegusti
tuttiveri tuttiscritti
e fuori quasi tutti sono fritti
mamme dolci e canzoncine
giochi seri e frittelline
le più belle cantilene
filastrocche e tiritere
girotondi e palloncini
per bambine e per bambini
nina nanne un po’ cretine
una storiella una poesia
bruttabella sia Brighella.
Filastrocca popolare
Ecco il tempo che cambia stagione
si gira il foglio si vede il burrone
ecco il burrone che squarcia la terra
si gira il foglio si vede la guerra
ecco la guerra non è mai finita
si gira il foglio si vede la vita
ecco la vita che costa lavoro
si gira il foglio si vede l’oro
ecco l’oro che luccica e brilla
si gira il foglio si vede il lilla
ecco il lilla che gioca al colore
si gira il foglio si vede l’amore
ecco l’amore che canta il poeta
si gira il foglio si vede l’atleta
ecco l’atleta che vinca il più forte
si gira il foglio si vede la morte
ecco la morte che porta via la gente
si gira il foglio si vede più niente
ecco il più niente che fa dispiacere
si gira il foglio si torna a vedere.
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Maurizio Cucchi
Un’estate bellissima
Nei primi tempi il piccolo S.
dalla rotonda faccia rossa,
dal raro sorriso agricolo
e dagli occhi inespressivi o modestamente
bovini, si addormentava volentieri
sbarrando lo sguardo; quasi posava
pesante la testa inebetita… Adesso lo vedi,
gentile supplente, semi partecipe e vivo:
ammirane la forbitezza dei solecismi.
Sempre più spesso proteso con la mano,
non senza divertenti sortite intempestive
allegramente a vanvera.
Un giorno d’estate era
bello ed era brutto.
Quest’anno è stato
veramente bello dell’
anno scorso.
“Si esprime bene e usa sempre
la lingua italiana. Riesce sempre
a dire quello che pensa anche se
non riflette se è giusto o sbagliato.”
Nella gabbia del mio oste
c’erano due babbuini
e il maschio mi ha sgagnato una mano.
Ma è più bello girare per il bosco
e ho visto tra le piante un cacciatore,
un orso grosso grosso che scappava
e correvano, qua e là, tanti animali…
Il gatto selvatico, che cià dei baffi
che sembrano radar e gli servono
sopratutto per la caccia; la bocca
del gatto si trova di solito
nella parte superiore del corpo.
“È impedito dalla troppa sicurezza di sé,
non ha mai dubbi sulle proprie convinzioni
sul proprio lavoro.”
Invece lei
perché cià le ossa vuote e ciò permette
al piccione di volare.
Molti animali cadono in letargo,
per esempio il serpente ecc..:
il letargo è un lungo sonno
che prende tutti i sensi.
Ma il cacciatore cadde a terra astuto
per un suo tranello o per la gran paura.
Fatto sta che l’orso avvicinatosi, mentre lo spiavo
lo usmò a lungo e lo rese morto.
“dimostra uno scarso interesse
per le libere letture”
“verso di lui sarà usata senza meno
la massima clemenza.”
In conclusione dico
che quest’anno non
è mai stato bello anzi
bellissimo.
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Milo De Angelis
Ninna-nanna della freccia
Dormi, bambino, camoscetto, castagnuccia
togli il berretto, il golf, la babbuccia
sogna i cacciatori e la bianca faina
lascia che una freccia ti fori la testina
riempi di sangue questa tua gola
lascia la mamma più sola, più sola
lascia la mamma più sola e più bella
mio unico amore mia unica stella.
Giochi con gli animali scampati al nubifragio
Giochi con i nubífraghi salvi
muffa sui putridi
e vita sui vivi! giochi
con guizzi e spiaggia calmata e secchielli
giocano le foche ancora nude e ridono
ridono all’onda calma
giochi
con arazzi e soglioline e il tri
checcone raggiante e collane d’uva
al pingue pinguotto, pellicciotto
di astrakan, capriole del riccio
tra i pesci spadaccini e i duelli: canta
anche l’opossum abbraciandola
e altri canti tra i salterini
salvi, altri cori alle onde placide
e all’arcobaleno e al balenottoro
e ananas, acquarellu e acqua
mite e diversa, ampolle di riso e acrobati
e dirindollà e tralallero!
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Giulia Niccolai
Creonte camaleonte
Sugli alberi del Madagascar viveva creonte Camaleonte, un gran sbruffone
dall’aspetto feroce e un po’ cialtrone.
Era Creonte quasi un drago, quasi un marziano,
molto più grosso ma pur sempre cugino lontano
delle nostre docili, veloci, lacerte lucertole.
Ma, “sono invincibile”, pensava Creonte compiaciuto
e soddisfatto di sé, tronfio, gonfio di vanagloria,
convinto di passare alla storia.
E immobile, passava tutto il suo tempo da solo,
proprio come un vero drago,
come uno che non dà spago a nessuno,
sempre occupato a enumerare
le molte armi difensive e offensive
sulle quali poteva contare.
“Ho tre corna,” diceva Creonte,
“due in più del rinoceronte.”
“Ho un bel cimiero
come quello sull’elmo di un guerriero.”
“ho più bugni, bozzi, gnocchi IO di una clava,”
si gloriava.
“Sono squamato, bardato, corazzato,
saldo e tenace come un carro armato
e sono anche ben mimetizzato!”
Era vero.
A suo piacere, secondo il suo volere
Creonte diventava
giallo, rosso, verde o nero.
“Cambio colore
secondo l’umore.”
“Sono introvabile perchè per finire,
posso addirittura SCOMPARIRE.”
E così, lucido e verde come una foglia di magnolia,
o in autunno, quando gli alberi cambiano colore,
rosso e giallo come un pappagallo,
e in inverno, bruno e nero
come la corteccia di un albero di pero,
Creonte Camaleonte, sempre immobile e invisibile
dava la caccia a larve, mosche e zanzare
che per lui erano le squisitezze migliori e più rare.
Sempre immobile perchè a Creonte bastava la lingua.
La sua infatti era una lingua tutta particolare
che non era solo lingua normale ma anceh un elastico
e un lungo braccio e una mano e un cucchiaio
e un battipanni e un laccio.
Anche gli occhi di Creonte erano eccezionali:
gli spuntavano in cima alla testa come due fanali,
ruotavano come torrette di sommergibili
perchè per tutti i versi erano dirigibili.
Si è già capito che era brutto,
ma questo ancora non è tutto.
La sua lunga coda arrotolata
che aveva anche una buona presa
gli serviva come una doppia corda tesa
e ben tirata.
Allora Creonte trapezista
da un ramo ruotava, volteggiava, capriolava
come fanno gli acrobati del circo
su in alto, sopra il pubblico e la pista.
Non c’è da sorprendersi perciò
se con tutte queste originalità e singolarità
Creonte si desse grandi arie di superiorità.
Per darsele ancora di più,
in una notte di luna piena,
invece di star giù, in mezzo alle foglie del tè
che gli facevano da letto o da canapè,
Creonte salì sù,
sù, sù, su
fino al ramo più alto
usando, come gradini, le foglie più verdi e di smalto
finchè non arrivò proprio lassù
in cima, sul ramo superiore
dell’albero maggiore:
la Magnolia Grande Foglia.
Là si trovò allo scoperto,
senza foglie, senza riparo, sotto il cielo aperto,
a tu per tu con la luna.
Cercò di diventare d’argento, di rifletterla come una laguna.
Cercò di cambiare la sua vita e per farlo
sibilò degli scongiuri, una formula magica e propiziatoria:
Tibilissi fili fissi
profilassi tutta prassi
biribissi fitti passi
sibilitti fiti lissi
tili fatti tili pitti.
Non servì a niente.
Creonte quella notte aveva iniziato la sua scalata tutto nero e invisibile, lassù, riflettendo i raggi della luna diventò come al solito verde, rosso, giallo ma luminoso come un semaforo e visibilissimo al buio.
Fu una fortuna. Nessuno prima d’allora aveva mai visto un camaleonte.
Furono scoperti proprio quella notte e da allora si sa anche che ci sono certe cose che i camaleonti non sono in grado di fare.
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Antonio Porta
Filastrocche
1
luna di lana
lana di luna
più c’è una lama
che taglia una piuma
2
rana balzana
melanzana panzana
rospo non ti conosco
se salti nel bosco
scendi allo stagno
pungi il suo ragno
panza melàna
balza la rana
rospo di bosco
acqua non ha
scendi nel ragno
bacia lo stagno
bacia la luna
che specchio si fa
3
abbiategrasso
abbiate fede
abbiate pazienza
nel posto delle rane
non ci sono le liane
abbiate coraggio
la mamma è partita
sono rimasti senza le dita
ma c’è pure un cammello
aperto come un ombrello
qui siamo in campagna
ci son pure i piragna
grida una vecchina dentuta
che dice le bugie
come tutte le spie
4
con la valigia
nel pigia pigia
strappa le mani
mordono i cani
corre sul treno
dà un colpo di freno
fermo in stazione
sta in punizione
la gente chiede
batte col piede
nessun lo sa
se partirà
con la valigia a rotelle
rimasta fra quelle
dimenticate in stazione:
tutti stan fermi
son tutti eterni
5
la filastrocca è sciocca
la si manda giù
quando si è sciolta in bocca
la filastrocca è in bocca
quando diventa sciocca
la si gusta di più
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Giovanni Raboni
Cos’è un soffione
Un soffione non è
un uomo alto
e grasso
che gonfiando le gote
soffia
molto forte ma un fiore
leggero
e giallo, credo
e
tondo
come una palla che
al minimo soffio
sparisce
Canzoncina del pane fresco
Le foglie secche
volano via
i rami secchi
si spezzano
per bruciarli
a poco a poco
nella stufa
il pane secco
si mette nel forno sperando
che ridiventi
buono
Canzoncina per febbre
Se il termometro sale
(37…38…39…)
non prenderti paura.
Non c’è niente di male.
Magari, oltretutto, piove.
E una faccia sudata
non è più brutta
né più scura
di una faccia asciutta.
Un bambino malato
non lo si butta
via
soltanto perchè scotta.
Non è mica un peccato
un po’ di malattia.
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Toti Scialoja
Una rapa con la foglia
Una rapa con la foglia
una casa con la soglia
una guancia con la voglia
una cuoca con la sfoglia
una pappa con la soia
una sala con la stuoia
una nana con la noia
una tana con la paglia
una talpa con la maglia
Una noce in un sacco
Una noce in un sacco
non fa rumore
una croce in un pacco
non fa terrore
una voce in un parco
non fa tremore
una prece in un palco
non dà torpore
(Da Quando la talpa vuol ballare il tango, Mondadori, Milano 1997)
Un rospo fuori sesto
provò a inghiottire Agosto,
ma Agosto, grande e grosso,
gli si fermò nel gozzo.
Ditemi voi che gusto
con mezza estate al buio!
Tornò di corsa Luglio:
il rospo sputò l’osso
e Agosto inghiottì il rospo.
Un giorno il rospo
sbucò dal bosco
nuotò nel botro
montò sul bordo
e in fondo all’orto
scovò del mosto:
un tino colmo.
Com’era torbo!
Pareva inchiostro.
Gli girò intorno
ne bevve un sorso
rimase assorto.
Corse il bifolco
con viso torvo
gridò: “T’ho colto!
Mica son orbo
pagami un soldo!”.
Allora il rospo
la bile in corpo
si finse sordo
e senza intoppo
col petto scosso
col fiato grosso
col freddo addosso
saltò nel fosso
lasciando il conto.
Ghiro ghiro tonto
mi sbrigo e non son pronto
da Rovereto a Trento
la ruga sotto il mento
il rigo senza senso
il rogo in mezzo al campo
il campo pieno d’erba
da Rimi a Viserba
gora gora torba
il ghiro odia la purga
da Bevagna a Foligno
si lascia il ghiro e io ghigno.
(Ghiro ghiro tonto, Stampatori, Torino 1979)
La strada bianca va in lontananza
la torta calda spande fragranza
la porta bianca tiene a distanza
la santa scalza fa penitenza
la scarpa bianca finge eleganza
la serva ladra fruga la stanza
la carta bianca basta ed avanza
la pancia tonda non fa una grinza
la barca bianca reca speranza
la mosca stolta ronza e non ronza
la gatta bianca si gratta a Monza.
(L’ippopotamo disse: “Mo…”, Mondadori, Milano 1990)
“Buona sera!” mi dice la zanzara
strofinando le zampe allo zerbino,
“ho tanta sete!” e, zaffete! mi azzanna
come zitella che scocchi un bacino.
Canta un merlo sceso al suol:
“La mi sol do re mi do
dammi un soldo e me ne vo!
Re mi fa si sol do sol
che mi fa s’è un soldo sol?
Do sol sol do mi fa re
un sol soldo mi fa Re!
(Una vespa! Che spavento, Einaudi, Torino 1975)
Cesare Viviani
La prima e la seconda infanzia di Pasquale
ovvero
l’educazione senti mentale
1
Pasquale è nato il giorno di Natale.
La madre era al bar con le amiche, a un ratto
è sbiancata e ha detto:
“ohi ohi, mi sento ovale…”
Il barman, rimasto illeso, è corso nel prato e ha preso
le ortiche al posto dei sali: le annusa la signora e son fatali…
le vengono narici madornali!
Gonfia, arrossata fortemente,
con tutte le doglie ha dichiarato:
“voglio far finta di niente, continuo il mio gelato!”
E lui nato sotto il tavolo,
venuto alla luce del locale,
ha un naso che sembrava carnevale!
(Un Natale che si immedesima
col carnevale e con la quaresima…)
2
Passavano i giorni e i mesi
ed erano inquieti e tesi.
Poi, un mercoledì mattina, la madre lo mise in carrozzina
e disse con tre puntini: “ti mancano i cavallini…”
Ma il figlio non le sorrise
e lei con parole ancor più lise…
“mah! visto che si va di male in peggio
andiamocene a passeggio!”
E ai giardini meno male
c’eran le amiche della mamma di Pasquale
che per ricuperare lo svantaggio avevan fatto tutte
un figlio saggio.
“Il mio è pulito e bello!”
“Il mio ha la forza di un cancello!” “Il mio…
è preciso come un orologio!”
“Il mio si merita un elogio!”
“Il mio non ha pretese!”
“Il mio fa il conto delle spese!”
“Il mio sente il tempo e lo prevede!”
“Il mio ha una grande fede!”
Pasquale che era lì ad ascoltare
aveva cominciato a vomitare.
3
Ha detto le prime parole, “urrà non siamo più sole!”
urlavano la nonna e la zia, guardiane quotidiane
di Pasquale. La madre lavorava con quel tale
imprenditore edile di Pavia.
Ora il piccolo, così sia!
ha imparato anche il nome del padre.
Ma dopo quante insistenze ladre!
E sapete come ha iniziato?
Una sera il televisore
era alto a tutto volume,
Pasquale molto frastornato non avendo ancora il cerume
trovò il modo di dire: “l’audio!”
E la zia trionfando: “evviva!
Pasquale ha principiato a dire Claudio!”
4
Lo portavano all’asilo di buon’ora
quando il sole era appena uscito fora,
lo riprendevano la sera molto tardi
quando il sole già calava in mezzo ai cardi.
Se ne stava tutto il giorno parcheggiato
lì in via Togliatti all’ultimo isolato.
Ma Pasquale si era fatto molti amici, specie
quei tre che avevano la bici. E tra gli altri
c’era anche Stanislao, che aveva al collo
il ritratto di Mao; e Giovannino pieno di colori
perchè era figlio di due assessori; e Franco che era il più egoista
aveva il padre che era un fascista.
La maestra era molto singolare. Ogni ora smetteva di insegnare…
si dirigeva al banco di Pasquale
e gli diceva con aria infernale:
“sei il più basso e sei il più corto,
hai la faccia di un bel morto!”
5
Con la tela della vela cela la gola un tale
spala la sala, sala la scuola e bela il mio Pasquale
cala la gala, vola la suola e gela per le scale…
Un polo è sempre solo…
Un filo di cielo,
un pelo di velo,
un volo sul molo,
un calo di dolo e poi lo consolo…
tutelo il mio Pasquale
6
La sera sono stanchi i genitori, raccontano gli autori
della storia
ed è la verità, non c’è la scoria.
Papà non si sa bene quel che fa ma è stato tutto il giorno
forse via; la mamma torna adesso da Pavia.
Pasquale accorre chiede vuole affetto… “Aspetta, aspetta un po’!”
“Vabbène, appètto…”
“Papà mammina, quetto è immìo disegno…”
con gli occhi che domandano se è degno…
“Bello bello” fa il babbo “bello bello…”
e già chiede alla moglie “…ma l’ombrello,
l’ombrello mio l’hai fatto riparare?…”
(Una vita che si lubrifica
con il sabato e la domenica…)
7
Sono iniziate le scuole elementari
“cercate d’essere buoni e cari…”
ripete ogni mattina la maestra
nel controluce di quella finestra…
“I vostri due doveri basilari sono il profitto
e la condotta…
poi all’intervallo… biscotti Motta!
E ora i miei consigli da seguire:
nell’incertezza è meglio tacere,
se si ha paura è meglio non uscire,
lo sconosciuto è sempre da temere,
l’eccesso e l’insistenza da evitare…
Pasquale, per favore, non parlare!”
(Chi insegna sogna il regno…)
8
Gli dicono i compagni “tu sei nato
da un cannocchiale e da Ponzio Pilato…”
oppure “tu sei figlio di Gegè
che aveva un occhio lontano da sé…”
Pasquale dalla sabbia è lì che sbava
cola la lava
9
Incuriosito da tante notizie
sollecitato poi da tante voci
che mai potranno essere primizie
né tantomeno saranno precoci,
Pasquale si rivolge a destra e a manca,
cerca una spiegazione un po’ più franca.
La mamma gli racconta che sui fiori
si posano gli insetti oppure il vento…
ma lui non si soddisfa ed è scontento.
La maestra gli dice che il pisello quanto è maturo
s’apre e perde i semi…
questi adulti gli sembrano un po’ scemi!
Mentre i compagni scherzano pesanti:
“Pasquale hai la pistola… è lì davanti!”
“Poi ho chiesto al babbo,
la solita volpe!
mi ha messo addosso una serie di colpe.”
10
D’estate venti giorni a Ventimiglia
eran le ferie di questa famiglia.
Passavan tutto il giorno all’arenile,
gli era sembrata la scelta meno vile…
Pasquale non aveva compagnie,
passava il tempo a leggere i fumetti
dentro le barche al secco. “Ci scommetti…”
diceva il padre alla madre e alle zie
“che Pasquale fa troppe fantasie!”
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Edoardo Sanguineti
questo è il gatto
questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti il foglio, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la Scuola d’Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente:
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Andrea Zanzotto
Cantilena londinese
Pin pidin
valentin
pan e vin
o mio ben,
un giosso, solo che un giosso,
te serco drento inte ‘l masso
te serco fora dal masso
te serco te serco e indrio sbrisso,
chi xé che me porta ‘l mio ben
chi me descanta
chi me desgàtia
chi me despira,
pan e pidin
polenta e nasin
polenta e late
da le tetine mate
da le tetine beate –
i xé i zoghessi de la piavoleta
le xé le nosse i caprissi de chéa
de chéa
che jeri la jera putèa.
*
Pin pidin
cossa gastu visto?
‘Sta piavoleta nua
‘sto corpesin ‘ste rosete
‘sta viola che te consola
‘sta pele lissa come séa
‘sti pissigheti de rissi
‘sti oceti che te varda fissi
e che sa dir “te vòi ben”
‘ste suchete ‘sta sfeseta –
le xé le belesse da portar a nosse
a nosse conposte de chéa
che jeri la jera putèa.
*
Pin penin
valentin
pena bianca
mi quaranta
mi un mi dòi mi trèi mi quatro
mi sinque mi sie mi sète mi òto
buròto
stradèa
comodèa –
Pin penin
fureghin
perle e filo par inpirar
e pètena par petenar
e po’ codini e nastrini e cordèa –
le xé le comedie i zoghessi de chèa
che jeri la jera putèa
Piè-piedino
valentino
pane e vino
o mio bene,
un goccio, soltanto un goccio,
ti cerco dentro il mazzo
ti cerco fuori dal mazzo
ti cerco ti cerco e scivolo indietro,
chi mi porta il mio bene
chi mi disincanta
chi mi sgroviglia
chi mi sfilza,
pan e piedino
polenta e nasino
polenta e latte
dalle tettine matte
dalle tettine beate –
sono i capricci della bambolina
sono le nozze i capricci di quella
di quella
che ieri era bambina.
*
Piè-piedino
che hai visto?
Questa bambolina nuda
questo corpicino queste rosette
questa viola che ti consola
questa pelle liscia come seta
questi riccioli pizzichini
questi occhietti che ti guardano fissi
e che san dire “ti voglio bene”
queste zucchette questa fessurina –
sono le bellezze da portare a nozze
nozze composte di quella
che ieri era bambina.
*
Piè-piedino
valentino
penna bianca
io quaranta
io uno io due io tre io quattro
io cinque io sei io sette io otto
buròto
stradèa
comodèa –
Piè-piedino
ficchino
perle e filo per infilzare
e pettine per pettinare
e poi codini e nastrini e cordicella –
sono i giochi i giochini di quella
che ieri era bambina.
(da Pin pidìn, Feltrinelli, Milano 1978)
Michael Ende
Il desiderio di tutti i desideri
Nella ridente città dei bambini
apparvero un bel giorno tre stregoni:
il primo si chiamava Alzazerbini,
un altro Settesturalavandini,
il terzo invece Privodintenzioni.
Facevano magie ai quattro venti
creazioni colorate e sorprendenti
e i bambini erano grati e contenti
per tutti quei magnifici portenti.
Rimaneva però una questione:
quei tre stregoni eran cattivi o buoni?
Spesso non si sa.
Quando venne il momento di partire
i tre stregoni avevano richiesto
che i bambini venissero a sentire
quello che loro avevano da dire,
che, se volete saperlo, era poi questo:
“Siamo commossi dalla vostra accoglienza,
vi offriamo gli onori del magistero
e inoltre, in segno di riconoscenza,
esauriremo un vostro desiderio.
Che sia un desiderio piccolo o grande
verrà esaudito subito, all’istante”.
Be’, tu che ne pensi?
Meditarono a lungo i bambini:
era un fatto da prendere sul serio,
un’occasione davvero sopraffina.
Pensarono e pensarono ed infine
dissero ai maghi: “Ecco il desiderio,
e scusate se è troppo che chiediamo:
ci sarebbe a tutti assai gradito
se ogni desiderio che esprimiamo
venisse subito esaudito”.
Dissero i maghi: “A noi fa lo stesso.
Se è questo che volete, sia concesso”.
Be’, che te ne pare?
Partirono i tre maghi in automobile
e i bambini rimasero interdetti,
perchè non pareva molto credibile
che una formula strana e incomprensibile
potesse sortire tali effetti.
Ma dopo un attimo d’esitazione
ognuno provò coi desideri,
e con estrema esaltazione
vide che i maghi eran sinceri:
ogni desiderio, piccolo o grande,
venne esaudito subito, all’istante.
Insomma, niente male.
Facevano appena in tempo a pensare,
venivan desideri a non finire:
chi voleva una moto da guidare,
chi dieci cartoline da guardare,
chi burattini, chi cose da dire,
dolci, trenini, bambole, ghiaccioli,
velluti, sete, broccati, gioielli,
trottole, pattini che van da soli,
scarpe, prosciutti, libri (però belli),
oro, smeraldi, raso e taffetà,
e tutti diventavano realtà.
E tu cosa vorresti?
E dopo un anno niente era cambiato,
la magia continuava a funzionare;
ma più d’un bambino era preoccupato:
non c’è sugo a vedere tutto realizzato,
a non aver più niente da sperare.
Desideravano meno ogni giorno:
avere tutto è cosa insopportabile,
con i loro desideri tutti intorno
i bambini erano proprio inconsolabili.
Lo sguardo triste, la mascella mesta,
non avevan più voglia di far festa.
Be’, tu che ne pensi?
Fu così che decisero i bambini
di inviare una grande spedizione
che andasse a cercare Alzazerbini,
oppure Settesturalavandini,
o, altrimenti, Privodintenzioni,
e dicesse loro: “Abbiate pieta!
Della vostra magia ormai siam paghi,
noi rivogliamo la felicità!”
Ma la spedizione non trovò i maghi.
E intanto si è chiarita una questione:
i tre maghi eran cattivi, non buoni.
O non sei d’accordo?
E i bambini eran proprio disperati
finchè uno non ebbe la trovata:
“Desideriamo, tutti concentrati,
che i desideri non sian più realizzati:
la magia sarà come evaporata”.
Così fecero, e dopo men di un’ora
la vita aveva ritrovato il sale.
A tutti era tornato il buonumore
e avevano imparato la morale.
Ma ora vorrei saper la tua opinione:
quei tre stregoni, eran cattivi o buoni?
Da mormorare per addormentarsi
Dormi dormi dolcemente,
pensa a tutto, pensa a niente.
L’orologio nel salotto
fa tic-tac tutta la notte.
Il cuscin sotto la faccia,
l’orsacchiotto tra le braccia,
la mia mamma ed il papà,
quel che amo è tutto qua.
Nessun luogo è come il letto,
così morbido e perfetto.
Cosa voglio per domani?
Un bel pieno di emozioni.
Dormi dormi dolcemente,
pensa a tutto, pensa a niente,
e ti cullano le onde
nei tuoi sogni più profondi.
(Il libro delle poesie, Salani Editore, Firenze 1994)
Luigi Sailer
La vispa Teresa
La vispa Teresa
avea tra l’erbetta
al volo sorpresa
gentil farfalletta;
e tutta giuliva
stringendola viva
gridava a distesa:
L’ho presa! l’ho presa!
A lei sospirando
l’afflitta gridò:
Vivendo, volando
che male ti fo?
Tu sì, mi fai male,
stringendomi l’ale;
deh! lasciami! anch’io
son figlia di Dio!
Confusa pentita
Teresa arrossì,
dischiuse le dita:
l’insetto fuggì.
(L’arpa della fanciullezza, Agnelli Editore, Milano 1870)
Angiolo Silvio Novaro
Ci vuole così poco
Ci vuole così poco
a farsi voler bene,
una parola buona
detta quando conviene,
un po’ di gentilezza,
una sola carezza,
un semplice sorriso
che ci baleni in viso.
Il cuore sempre aperto
per ognuno che viene:
ci vuole così poco
a farsi voler bene.
I doni
Primavera vien danzando
vien danzando alla tua porta
Sai tu dirmi che ti porta?
Ghirlandette di farfalle,
campanelle di vilucchi,
quali azzurre, quali gialli;
e poi rose, a fasci e a mucchi.
E l’estate vien cantando,
vien cantando alla tua porta.
Sai tu dirmi che ti porta?
Un cestel di bionde pesche
vellutate, appena tocche,
e ciliege lustre e fresche,
ben divise a mazzi e a ciocche.
Vien l’autunno sospirando,
sospirando alla tua porta.
Sai tu dirmi che ti porta?
Qualche bacca porporina,
nidi vuoti, rame spoglie,
e tre gocciole di brina,
e un pugnel di morte foglie.
E l’inverno vien tremando,
vien tremando alla tua porta.
Sai tu dirmi che ti porta?
Un fastel d’aridi ciocchi,
un fringuello irrigidito;
e poi neve neve a fiocchi
e ghiacciuoli grossi un dito.
La tua mamma vien ridendo.
vien ridendo alla tua porta,
sai tu dirmi che ti porta?
Il suo vivo e rosso cuore,
e lo colloca ai tuoi piedi,
con in mezzo ritto un fiore:
Ma tu dormi e non lo vedi.
Che dice la pioggerellina
di marzo, che picchia argentina
sui tegoli vecchi
del tetto, sui bruscoli secchi
dell’orto, sul fico e sul moro
ornati di gèmmule d’oro?
Passata è l’uggiosa invernata,
passata, passata!
Di fuor dalla nuvola nera,
di fuor dalla nuvola bigia
che in cielo si pigia,
domani uscira’ Primavera
guernita di gemme e di gale,
di lucido sole,
di fresche viole,
di primule rosse, di battiti d’ale,
di nidi,
di gridi,
di rondini ed anche
di stelle di mandorlo, bianche…
Che dice la pioggerellina
di marzo, che picchia argentina
sui tegoli vecchi
del tetto, sui bruscoli secchi
dell’orto, sul fico e sul moro
ornati di gèmmule d’oro?
Ciò canta, ciò dice:
e il cuor che l’ascolta è felice.
Che dice la pioggerellina
di marzo, che picchia argentina
sui tegoli vecchi
del tetto, sui bruscoli secchi
dell’orto.
(La pioggerellina di marzo e altre poesie, San Marco dei Giustiniani, Genova 2004)
Giovanni Pascoli
Valentino
Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini!
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de’ tuoi piedini;
porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.
Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d’un mese
per riempirlo, tutto il pollaio.
Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!
Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:
come l’uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,
ci sia qualch’altra felicità.
Orfano
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola pian piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento sulla mano.
La vecchia canta: Intorno al tuo lettino
c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò, cupo,
e tacque, e poi rimaneggiò rifranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.
(Poesie, Luigi Reverdito Editore, Trento 1995)
Diego Valeri
Paesaggio
Lungo la spiaggia di sabbia fine,
sull’orlo di un mare a pecorelle,
lento procede in triplice fila
un branchettino di paperelle.
Vanno di passo regolare
come un collegio di chierichini,
girano solo la testa, a beccare
pallidi insetti salterini.
Dietro c’è un mare che freme selvaggio,
sopra c’è un sole che avvampa in leone.
Restano, a traccia del lieve paesaggio,
tante crocette a fior del sabbione.
(Poesie piccole, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1969)
Renzo Pezzani
Farfalle
Or su un’erba ed or su un fiore
mi rincorri e non mi cogli….
Sono un libro di due fogli
del più splendido colore.
Della dolce primavera
son l’immagine leggiera.
Vado, vengo, fuggo, torno;
bacio un fior tocco uno stelo;
son caduta giù dal cielo,
non vivrò che un breve giorno.
Non uccidermi, bambino!
Son la grazia del mattino.
(Sole solicello, La Scuola Editrice, Brescia 1933)
Jacques Prévert
Esercizio di scrittura
Due più due quattro
quattro più quattro otto
otto più otto sedici…
Ripetete! Dice il maestro
due più due quattro
quattro più quattro otto
otto più otto sedici.
Ma ecco che nel cielo
passa l’uccello lira
il bambino lo vede
il bambino lo sente
il bambino lo chiama:
Aiuto, vieni
a giocare con me
uccello!
E l’uccello viene giù
e gioca col bambino
due più due quattro…
Ripetete! Dice il maestro
e il bambino gioca
e gioca l’uccello con lui…
Quattro più quattro otto
otto più otto sedici
e sedici più sedici che fa?
Non fa un bel niente sedici più sedici
sopratutto non fa
in nessun caso trentadue
e così pianta tutto e se ne va.
E il bambino ha nascosto
l’uccello nel suo banco
e tutti i bambini
l’ascoltano cantare
e tutti i bambini
ascoltano la musica
e otto più otto se ne va anche lui
e quattro più quattro e due più due
se ne vanno anche loro
e uno più uno non ci mette né uno né due
e a sua volta sparisce.
E l’uccello lira suona
e il bambino canta
e il professore grida:
quando la smetterai di fare il pagliaccio!
Ma tutti gli altri bambini
ascoltano la musica
e i muri della classe
crollano buoni buoni.
E i vetri ridiventano sabbia
l’inchiostro ridiventa acqua
i banchi ridiventano alberi
il gesso ridiventa falesia
il portapenna ridiventa uccello.
(Parole, Guanda, Parma 1989)
Asino che dorme
È un asino che dorme,
bambini, guardatelo dormire
non svegliatelo
non fategli qualche scherzo
quando non dorme, è spesso infelice.
Non mangia tutti i giorni.
Ci si dimentica di dargli da bere.
E spesso lo picchiano.
Guardatelo
è più bello di tutte le statue che vi dicono
di ammirare e che vi annoiano.
È vivo, respira, confortevolmente
installato nel suo sogno
i grandi dicono che la gallina sogna
il grano e l’asino l’avena.
Ma i grandi lo dicono così
per dire qualcosa,
farebbero meglio a occuparsi dei loro sogni
e dei loro piccoli incubi personali.
Sull’erba vicino alla sua testa ci sono due
piume. Se le ha viste prima di addormentarsi
forse sogna d’essere un uccello e di volare.
O forse sogna qualcos’altro.
Per esempio che è a scuola tra i ragazzi
nascosto nell’armadio
tra i fogli da disegno.
C’è un ragazzino che non sa risolvere
il suo problema.
Allora il maestro gli dice:
tu sei asino, Nicolas!
È disastroso per Nicolas.
Sta per piangere.
Ma l’asino viene fuori dal nascondiglio
il maestro non lo vede.
E così l’asino risolve il problema
del ragazzino.
Il ragazzino porta il suo problema
al maestro e il maestro gli dice:
Molto bene Nicolas!
Allora l’asino e Nicolas
ridono sottovoce fragorosamente
ma il maestro non li sente.
E se l’asino non fa questo sogno
vuol dire che sta sognando qualcos’altro.
Tutto ciò che sappiamo è soltanto che sogna.
Tutti quanti sognano.
(Foglie morte, Guanda, Parma 1981)
Roger McGough
5 modi per fermare un pupazzo di neve che vuole scheggiarvi il frigo
1) Cospargete il pavimento della cucina di bucce di banana
2) Appendete ovunque delle bottiglie di acqua bollente
3) Riempite il frigo con calzini puzzolenti
4) Assumete un buttafuori
5) Trasferitevi ai Caraibi
5 modi per evitare che un orso grigio vi rovini il picnic
1) Tirategli una o più scarpe
2) Prestategli il vostro orsacchiotto per farlo giocare
3) Portatevi cibi che agli orsi non piacciano
(Teste di Pesce… cacche d’asino… unghie di topo… occhi di rana… baffi di maiale… ombelichi di scimmia… latte di pipistrello).
Non portate mai e poi mai del miele
4) Fate il picnic dove non ci sono orsi grigi: ad esempio in sud America. (però lì dovete stare attenti alle tarantole, ai coccodrilli, ai boa constrictor, ai criceti giganti e ai pesci rossi mangiatori di bambini!)
5) Imparate a memoria alcune frasi nella lingua dell’orso grigio come “Grrr”1, “Grr Grr”2 e “G R R R R R R”3
1 “Buongiorno
2 “Mi dispiace, questo è un picnic privato”
3 “Smamma o chiamo i carabinieri”
5 modi per individuare una strega vera a una festa di Halloween
1) Tira il naso a tutti (ma attento: anche lei potrebbe portarne uno falso)
2) Assaggia tutti i brodi di coda di topo e di ramarro (ma attento: anche lei potrebbe aver portato una bella zuppa inglese)
3) Prova tutte le scope volanti (ma attenzione: la sua, quella vera, potrebbe essere parcheggiata sul tetto)
4) Accarezza i gatti di tutti (ma attenzione: siccome il suo è senz’altro il più furbo, potrebbe sembrare il più simpatico)
5) Dì a voce alta e chiara: “Il filatoio che apparteneva a mia nonna, che una volta era una bella principessa, si è rotto. C’è nessuno che vuole aggiustarlo?” (Attento ai volontari!)
(Gattacci, Elle, Trieste 2001)
Giovanni Giudici
Le streghe
Per chi ci crede e chi non ci crede
parleremo delle streghe.
Dice la gente che sono vecchie
con i pidocchi fin dentro le orecchie,
con gli occhi storti e affumicati,
con i vestiti sporchi e stracciati.
Vivono dentro castelli in rovina
con gli uccellacci di rapina:
perchè gufi e barbagianni
son delle streghe gli eterni compagni.
Durante il giorno stan chiotte chiotte
aspettando che faccia notte.
Ma quando è buio vispe e allegre
spiccano il volo le brutte streghe:
vanno a cavallo delle scope,
corrono come milioni di ruote;
passano monti, passan pianure,
passano buchi di serrature;
bevono il latte dei pipistrelli,
di ragnatele hanno i capelli;
mastican vermi vivi tra i denti,
per questo sono così puzzolenti;
e più dei ladri e degli assassini
vogliono fare paura ai bambini.
Così ti dicono se fai i capricci
e a far la nanna non ti spicci.
Ma io t’insegno il modo sicuro
per inchiodare la strega al muro;
e ti spiego come fare
a ruzzolarla giù per le scale.
Se la senti che sta arrivando
non devi piangere tremando;
se cerca di farti un dispetto
non rannicchiarti nel tuo letto;
e se ti fa il solletico ai piedi
digli: stupida, cosa credi?
Fagli in faccia una gran risata
e la strega sarà spacciata.
Questo è il sugo dell’avventura:
la paura è di chi ha paura.
Tu fagli solo: coccodè
e ogni strega ha paura di te.
Pazza di rabbia e di spavento
se ne scappa via come il vento,
via lontano per mai più tornare:
e tu puoi andartene a russare.
Il lupo
Qui del lupo ti voglio parlare
che è un bel tipo originale.
Quando c’è il sole lui sta nella tana
mentre la neve sui campi lo chiama.
Il lupo è pigro, vuole dormire,
ma quando ha fame non può poltrire.
Fa di mestiere il cacciatore
e delle pecore sente l’odore.
Ma a caccia non va con lo schioppo
il povero lupacchiotto.
La mamma lupa nella capanna
gli grida: “basta fare la nanna!”
Gli grida: “Corri brutto mostro,
voglio la carne per fare l’arrosto!”
Pasce le pecore la pastorella
che fa ricotte e mozzarella.
“Oh signorina” gli dice il lupetto,
“Avrei bisogno di un bel capretto.
Oh signorina me lo dia in dono,
le dirò grazie e sarò buono”.
Ma la ragazza è una cretina
e gli risponde: “Perdindirindina!”
Il lupo torna tutto avvilito
alla tana da dove è partito.
“Bel fannullone” Cosa hai portato?”
Gli chiede il padre lupo affamato.
E il lupettino si mette a frignare
perchè niente ha da mostrare.
La mamma lupa gli dà i consigli:
“Quel che non danno tu te lo pigli.”
Il lupacchiotto impara a memoria:
dice: “Mammina io bravo sarò,
l’arrosto gratis ti porterò.”
E quatto quatto corre alla stalla
mentre il padrone gioca alla palla.
La schiena inarca, arrota i denti,
drizza la coda, le unghie pungenti.
Spicca un gran salto alla finestrella
dov’è affacciata una pecorella.
L’acchiappa in fretta, la porta via.
E lei che bela: “Madonna mia!”
La pastorella chiama il padrone:
“Al ladro! Al ladro! Quel lupacchione!”
Ma il lupacchio è già scappato.
Alla sua tana trionfante è arrivato.
Il lupo è pigro, non sa fare il pane,
ma ruba solo quando ha fame,
perchè nessuno gli dà da mangiare
lui deve andarselo a cercare.
Così alla fine come all’inizio
perde il pelo e non perde il vizio.
(Scarabattole, Mondadori, Milano 1989)
Giacomo Vit
IL PESCIOLINO DARIO E LA BOLLICINA D’ARIA
Il pesciolino Dario
nel vetro è solitario,
ma un fatto straordinario
un giorno capitò.
Una bollicina d’aria
anch’ essa solitaria
un poco temeraria
con esso ci giocò.
E Dario innamorato
guizzò emozionato,
ma tutto addolorato
di colpo si trovò.
La bella bollicina
con il tutù di trina
come una ballerina
in alto si librò.
BALLATA DELLE PARTENZE
Parte la foglia
con il treno del vento,
parte il fiore
con l’autobus del fiume,
la rondine va
con l’aereo di piume…
Parte ogni cosa
e ti lascia un po’ triste
il ricordo però
dentro di te resiste
AMICI
Ho un amico: è il fiume
vado spesso a trovarlo,
a parlargli, a consolarlo,
se lui ha una brutta cera.
Ho un’ amica, è la luna,
spesso io la guardo in alto,
e vorrei spiccare un salto,
per toccarle una guancia.
Ho un amico: è il vento,
che mi spettina contento,
che mi tira le orecchie,
che mi soffia storie vecchie.
LE MANI DEL NONNO
Ruvide, come carta vetrata
che il legno gratta;
secche, come terra arsa
dove la vita sembra scomparsa;
goffe, come equilibrista
di un circo sotto la neve.
Ma quando esplode il temporale,
e la parola che rassicura non vale,
ma quando il buio è proprio troppo,
ed ha paura anche l’orsacchiotto,
ecco la stretta di caldo buono,
il soffice calore che t’addormenta:
le mani del nonno son cavalieri
di serenità nella tormenta.
LA PAROLA
Cos’è più dolce di una parola
gustata con un’ amica quando sei sola,
e quel franco confidarsi ti consola?
Quale bibita ti può dissetare
come il fresco e pacato colloquiare
con il nonno, a piedi scalzi, in riva al mare?
Cosa ti può saziare più di un piatto di parole
offerte da un gentile viaggiatore,
mentre il treno sfreccia su binari di sole?
Cibo dell’uomo è la parola,
cibo del cuore, della mente,
fiore della gola.
Ana Blandiana
Un tempo gli alberi avevano occhi
Un tempo gli alberi avevano occhi,
posso giurarlo,
so di certo
che vedevo quando ero albero,
ricordo che mi stupivano
le strane ali degli uccelli
che mi sfrecciavano davanti,
ma se gli uccelli sospettassero
i miei occhi,
questo non lo ricordo più.
Invano ora cerco gli occhi degli alberi.
Forse non li vedo
perché albero non sono più,
o forse sono scivolati lungo le radici nella terra,
o forse,
chissà,
solo a me m’era parso
e gli alberi sono ciechi da sempre.
Ma allora perché
quando mi avvicino
sento che
mi seguono con gli sguardi,
in un modo che conosco,
perché, quando stormiscono e occhieggiano
con le loro mille palpebre,
ho voglia di gridare
Cosa avete visto?…
L’armatura
Il mio corpo
non è che l’armatura
scelta da un arcangelo
per attraversare il mondo
e,così travestito,
con le ali impacchettate
dentro sé,
con la visiera del sorriso
calata impenetrabile sul volto,
si getta nella mischia,
si lascia accostare dalla feccia,
infangato di sguardi,
e carezzato perfino
sulla cotta fredda della pelle
e sotto, il disgusto cova
l’angelo sterminatore
Solo l’amore
Solo l’amore fra genitori e figli
è sementa.
Amore mio,sei figlio mio,
da qui nasce tutto.
Ciò che non si può distruggere
scorre tra genitori e figli.
Non tapparti le orecchie
con le leggi di questo mondo,
l’intero universo è appeso
al filo di sangue che ci lega
come un santo sacramento.
Tu chinati soltanto e, come un bimbo,
baciami sulla bocca, papà.
(Un tempo gli alberi avevano occhi, Donzelli 2004)
Lewis Carroll
Il Ciarlestrone
Era brillosto e gli alacridi tossi
Succhiellavano scabbi nel pantùle:
Mèstili eran tutti i papparossi,
E strombavan musando itartarocchi.
“Attento al Ciarlestrone, figlio mio!
Fauci che azzannano, zampe che ti artigliano!
Attento all’uccel Giuggio, e attento ancora
Al fumíbondo Chiappabanda!”
Afferrò quello la sua vorpida lama:
A lungo il manson nemico cercò…
Così sostò presso l’albero Tonton,
E riflettendo alquanto dimorò.
E mentre in bellico pensier si trattenea,
Il Ciarlestrone con occhi di brage
Venne sifflando nella tulgida selva,
Sbollentonando nella sua avanzata!
Un, due! Un, due! E dentro e dentro
Scattò saettante la vorpida lama!
Ei lo lasciò cadavere, e col capo
Se ne venne al ritorno galumpando.
“E hai tu ucciso il Ciarlestrone?
Fra le mie braccia, o raggioso fanciullo!
O giorno fragoso! Callò! Callài!”
Stripetò quello dalla gioia.
Era brillosto, e gli alacridi tossi
Succhiellavano scabbi nel pantùle:
Méstili eran tutti i papparossi
E strombavan musando i tartarocchi.
(Jabberwocky, Orecchio acerbo Editore, Roma 2012)
Luigi Bertelli – Vamba
I miei grilli
Un tempo la mia testa
su cui negri e sottili
s’intrecciavano i fili
come in rete molesta
era una gabbia piena
di grilli canterini:
e che canti argentini
su, nell’aria serena,
che concerto di trilli
al volger d’ogni dì!…
Avevo tanti grilli!…
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
Uno con gli arabeschi
sulla corazza d’oro
strillava in mezzo al coro
i suoi sogni guerreschi,
in nome del progresso
saltando in ogni luogo
a liberar dal giogo
ogni popolo oppresso.
Che strage di tiranni!…
eppur son sempre lì,
grillo de’ miei vent’anni!
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
V’era un grillo poeta
tutto nervosetto
incompreso e tradito,
che dall’anima inquieta
sfogava impeti ed ire
in versi mal costrutti
e credeva che tutti
lo stessero a sentire.
Ma intorno a te nessuno
giammai s’impietosì,
povero grillo bruno…
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
E v’eran grilli d’ogni
specie e d’ogni colore,
grilli pieni d’amore,
grilli pieni di sogni,
grilli mesti e gioviali,
timidi ed arroganti,
ma ugualmente inneggianti
a tutti gli ideali,
in un coro di trilli
ripetuto ogni dì.
Avevo tanti grilli!…
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
Quanto tempo è passato!
Qualcuno è morto in gabbia
di dolore, di rabbia,
di mancanza di fiato;
altri poi son fuggiti
via, di tra i fili, allora
sì folti e neri ed ora
sì radi e arrugginiti.
Il poeta, rammento,
un bel giorno morì
del male dello stento…
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
Ma non tutti son morti
o andati in altri lidi:
son rimasti i più fidi,
i più sani, i più forti,
e inneggiano e fan festa
a nuovi sogni e d’alti
canti e sgambetti e salti
mi riempion la testa.
Bravi grilli! Ch’io v’abbia
sempre allegri, così,
finchè dura la gabbia…
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
E poi… Sotto i capelli
del caro figliuol mio
sento già lo stridio
de’ grilli tenerelli,
e son molti, e ciascuno
ha un inno da cantare,
e dal giallo collare
erge il capino bruno
con l’occhio, come i cento
grilli de’ miei bei dì,
oltre le nubi intento.
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
O eterna fantasia
che popoli i cervelli
di tanti sogni bellissimapieni di poesia,
fa’ che un giorno il mio figlio
canti i sogni migliori
sull’Alpi, tra i fulgori
d’un tramonto vermiglio
che all’Italia prepari
l’alba di un lieto dì,
signora dei due mari…
Crì-crì, crì-crì, crì-crì…
(da una cartolina)
Hans Christian Andersen
La diligenza di capodanno
Mezzanotte suonò sopra il villaggio
nella placida piazza solitaria…
le ore sobbalzano nell’aria
per la tacita volta senza raggio;
recava da lontano, intanto il vento
come un tintinnio garrulo d’argento,
e pel villaggio solitario; errare
un trotto di cavali si sentì;
un cavallo vicino, ecco nitrì
il gabellier si sporse per guardare;
qualche finestra ancor s’illuminò
e mezzanotte, lenta, risonò.
La diligenza a dodici cavalli
arriva con dodici signori.
e tutti, presto presto, venner fuori
con valige, con scatole, con scialli;
e il primo, un vecchio tremulo e bonario:
« Lode a Dio – esclamò – siamo in orario! »
Era il trentun dicembre ed era l’ora
che l’anno vecchio, curvo, se ne va,
nel mare eterno dell’eternità
svanisce, si disperde, si scolora,
mentre vanno per ville e per tuguri
baci e abbracci, brindisi e auguri.”
(Kjendte Og Glemte Digte , BiblioBazaar, Charleston 2012)
Se solo fossi ricco! pregai molte volte,
quando ancora ero un bambinetto.
Se solo fossi ricco, diventerei ufficiale,
avrei una sciabola, l’uniforme e una piuma.
Quel tempo poi venne, e io divenni ufficiale,
ma non divenni mai ricco, purtroppo
Mi aiutasse il Signore!
Felice e giovane, mi trovavo di sera,
una fanciulla di sette anni mi baciava la bocca,
perché ero ricco di fiabe e di racconti,
ma povero ero di denari;
ma la fanciulla era interessata solo alle favole,
di quelle ero ricco, ma non di oro,
e questo il Signore lo sa!
Se solo fossi ricco! è finita la mia preghiera a Dio,
ora la bimba di sette anni è cresciuta,
è così bella, intelligente, buona,
se lei capisse la favola del mio cuore,
se lei, come prima, mi fosse amica
ma io sono povero, e perciò taccio, così vuole il Signore.
Se io fossi ricco di consolazione e di pace,
allora il mio dolore non sarebbe stato scritto sulla carta!
Tu, che io amo, se tu mi capissi,
leggi questo, come una poesia degli anni della gioventù!
Ma è meglio se tu non lo comprendi,
io sono povero, il mio futuro è buio,
che il Signore ti benedica!
(Le soprascarpe della felicità, Edizioni El, Trieste 2005)
Elena Farago
La chioccia
Cot, cot, cot
faccio quel che si può, che si può,
cot-co-dac,
cot-co-dac,
i pulcini stiano buoni qua.
Cinguetto
il mio arruffetto,
e li chiamo, li chiamo ancora,
che non li lascio
nemmeno fare un passo
senza di me, allora.
E raccolgo
per loro il cibo migliore,
e la sera racconto loro
Cot-co-de,
Cot-co-de,
Tante belle favole.
Clonc-clonc-clonc,
Clonc-clonc-clonc,
e si addormentano così
riscaldati
e riparati
sotto la mia ala.
(Poezii, Herra, Romania 2006, traduzione di Rita Takacs)
Otilia Cazimir
Nevica
Ssst!… La mammina del gelo
con la sua fredda manina
bussa alla porta del cielo
e domanda un po’ arcigna:
“Ma dove sono le stelle lassù?”
“Beh, non ci sono!
Il vento le ha dissipate,
nel paese sparpagliate.
Eccone una: si è staccata
dal lembo di una nuvoletta
e scende senza fretta…”
“È forse la neve?
È una stella di neve, la prima,
col vento porta che la neve,
bianchi sentieri sulla cima,
nei tuoi occhi una limpida risata,
slittini,
campanellini…”
(Poezii, Nicol, Romania 2008, traduzione di Rita Takacs)
Alfonso Gatto
Ogni uomo è stato un bambino
Ogni uomo è stato un bambino
– pensate – un bel bambino.
Ora ha i baffi, la barba,il naso rosso,
si sgarba per nulla…
Ed era grazioso, ridente, arioso
come una nube nel cielo turchino.
Ogni uomo è stato un monello
– pensate – un libero uccello
tra alberi case colori.
Ora è solo un signore fra tanti signori,
e non vola, e non bigia la scuola.
Sa tutto e si consola
con una vecchia parola
“Io sono… Chi è?
Ditelo voi bambini ignari
che camminate con un sol piede sui binari,
e scrivete “abbasso tutti gli uomini brutti”
col gesso e col carbone
sul muro del cantone.
Ditelo voi, bambini. Egli è…
“… un gallo chioccio che fa coccodè!”
Girotondo
Ho preso tutti i bambini per mano,
andiamo in corsa per la città.
Alto più alto, nano più nano,
evviva evviva la libertà!
Il cielo è netto col mare d’intorno,
il sole odora di pane croccante
e l’acqua è fresca, fragrante,
ride alla bocca del giorno.
Io sono pazzo di tutti i colori,
il rosso è forte come un cazzotto,
il verde spilla bibite e fiori,
il bianco a sacchi di neve e brina,
ride il pagliaccio che s’infarina.
Ho perso tutti i bambini per mano,
ho preso tutti i colori e pennelli.
Tingiamo a nuovo case e ruscelli,
le porte, i chioschi, la barba al sultano.
Ho preso tutte le nuvole per mano.
Tutti i rumori, gli strilli, il baccano.
Alto più alto, nano più nano,
evviva evviva la libertà.
(Il vaporetto, Nuova Accademia, Milano 1963)
Alda Merini
Bambino
Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia
legalo con l’intelligenza del cuore.
Vedrai sorgere giardini incantati
e tua madre diventerà una pianta
che ti ricoprirà con le sue foglie.
Fa’ delle tue mani due bianche colombe
che portino la pace ovunque
e l’ordine delle cose.
Ma prima di imparare a scrivere
guardati nell’acqua del sentimento.
(Poesie, Mondadori, Milano 1998)
Dino Buzzati
La famosa invasione degli orsi in Sicilia
Dunque ascoltiamo senza batter ciglia
la famosa invasione degli orsi in Sicilia.
La quale fu nel tempo dei tempi
quando le bestie eran buone e gli uomini empi.
In quegli anni la Sicilia non era
come adesso ma in un’altra maniera:
alte montagne si levavano al cielo
con la cima coperta di gelo
e in mezzo alle montagne i vulcani
che avevano la forma di pani.
Specialmente uno ce n’era
con un fumo che pareva una bandiera
e di notte ululava come un ossesso
(non ha finito di ulular neppure adesso).
Nelle buie caverne di queste montagne
vivevano gli orsi mangiando castagne,
funghi, licheni, bacche di ginepro, tartufi
e se ne cibavano finchè erano stufi.
(La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Mondadori, Milano 1977)
Giovanni Arpino
Michelaccio
Voglia di lavorar saltami addosso
però non consumarmi fino all’osso
voglia di lavorar saltami in testa
ma moltiplicami i giorni della festa
voglia di lavorar saltami in braccio
ma non ridurmi mai come uno straccio
voglia di lavorar saltami al collo
ma non spennarmi nudo come un pollo
voglia di lavorar saltami al naso
però di rado, però quasi per caso
voglia di lavorar saltami agli occhi
ma non strapparmi in mille e mille tocchi
voglia di lavorar vienimi in mente
ma non mischiarmi a tutta l’altra gente
voglia di lavorar dammi un bacio
ma non ridurmi a solo pane e cacio
voglia di lavorar va’ da qualcuno
ma lascia in pace me che son nessuno
voglia di lavorar dormi a Natale
e seguita a dormir a carnevale
voglia di lavorar non starmi intorno
e lasciami dormire tutto il giorno
voglia di lavorar batti il martello
ma non chiedere aiuto al mio cervello
voglia di lavorar, cara signora
ho avuto gran pazienza sino ad ora
voglia di lavorar non s’offenda
mi lasci solo con la mia merenda…
Corre la tartaruga e corre Achille
tutti e due volendo far scintille,
corre la lepre e dietro a lei il cane
il povero insegue pane con salame
insegue il ricco un nuovo patrimonio
fino a perdere fiato e comprendonio,
corre il leopardo dietro alla gazzella
corre brucia scompare ogni stella.
Che posso farci se io son nato stanco,
pigro, tranquillo, e subito mi sfianco?
Mi chiaman Michelaccio, perchè dormo
seduto e in piedi, sera notte e giorno.
Quando mi corico sogno difilato
ventitremila sogni colorati.
Non corro, io, non faccio. Non mi muovo.
Non cerco. Non mi agito. Non trovo.
Son milioni le gambe a questo mondo
che corrono in tremendo girotondo:
le vedo e dico: e se cascano in un fosso?
Voglia di lavorar saltami addosso…
(da Le nuove filastrocche, Rizzoli, Milano 1968)
Emanuele Luzzati
Alì Babà
Chi lo sa, chi non lo sa
questa è la storia di Alì babà
che per passare il tempo allegramente
faceva di tutto per non far niente.
Un giorno per gioco si era nascosto
fra le foglie di un albero
nel bel mezzo di un bosco
e mentre al chiaro di luna
contava le foglie una per una
sente un rumore, il cuore gli dà un botto:
…quaranta ladroni stanno lì sotto.
Quaranta ladroni, più un uomo a cavallo
vestito di blu, di rosso e di giallo
come se andasse alla festa da ballo;
per Allah! Lo conosco questo qua:
è il feroce Mustafà,
il terror della città
e questi altri lestofanti
sono i celebri briganti
ladri d’oro e di diamanti
e vengono avanti, vengono avanti.
Poi Mustafà dice: “Alto là
fermate il passo davanti a quel masso
e ripetete tutti con me:
apriti Sesamo, uno, due e tre…”
Apriti Sesamo: a questa parola
la roccia s’apre tutta da sola;
Alì Babà sempre nascosto
al solito posto
dalla sua pianta vede i ladroni
tutti e quaranta
l’un dopo l’altro
entrare in quell’antro
posare il sacco,
girare il tacco
e zitti zitti venirsene via
mentre la roccia
per nuova magia
si chiude di botto
…e Alì Babà casca di sotto.
(Alì Babà, Emme Edizioni, Milano 2003)
Yang Xiaping
Un chicco di riso
Vi racconto un pezzo d’una storiella:
– C’era una volta una formica piccola,
trovò un chicco di riso per strada,
per portarlo via con sé non ce la faceva.
Chiamò una sua buona amica,
le due traballarono, e che peso sulle spalle ancora!
Un’altra amica venne fuori,
tutte e tre insieme a passi leggeri
portarono via il chicco dentro la tana.
Due grilli si vantavano
C’erano una volta due grilli,
stavano insieme come due fratelli,
si vantavano per passar il tempo libero.
L’uno disse: – domani voglio mangiare un albero!
L’altro disse: – domani mangerò un asino intero!
Mentre chiacchieravano muso a muso,
arrivò un gran gallo all’improvviso.
Quei due fratelli tutti furiosi
andarono incontro al gallo,
il quale a capo chino li beccò tranquillo.
Coperchio di ghiaccio
C’era una volta una vecchia scimmia,
un giorno voleva fare la cucina.
Prese un gran pezzo di ghiaccio,
ne voleva fare un coperchio.
Si preparò per bene un fuoco,
mise su una pentola col coperchio di ghiaccio,
da lì guardava sotto il cielo fosco.
Ma le cose andarono troppo male:
il coperchio nel cielo volò via
trasformandosi in una nube bigia.
La vecchia scimmia era stupefatta,
non sapeva che grattar la testa spelacchiata.
(da Poesie e filastrocche cinesi, Idest, Campi Bisenzion 2001)
Leo Lionni
Questo è l’albero dell’alfabeto, – disse la formica.
Perché si chiama così? – le chiese un’amica.
Perché non molto tempo fa era carico di lettere che vivevano felici e contente saltando di foglia in foglia, lasciandosi cullare dalla brezza.
Ma un giorno la brezza si trasformò in vento, poi in burrasca.
Molte lettere furono spazzate via, e le altre si spaventarono molto.
Così si nascosero tra le foglie. Un buffo insetto rosso e nero con le ali gialle le vide tutte nascoste.
Abbiamo paura del vento, – spiegarono le lettere. – Ma tu chi sei?
Mi chiamo insetto parolaio, – replicò quello.
Posso insegnarvi a formare delle parole.
Se vi unite a gruppi, nessun vento sarà forte abbastanza da spazzarvi via.
E con pazienza, insegnò alle lettere a unirsi per formare delle parole.
Tutte contente le lettere tornarono in cima ai rami più alti, e quando arrivò il vento si strinsero forte; senza paura.
L’insetto parolaio aveva avuto ragione!
(Le favole di Federico, Einaudi, Torino 1997)
Trilussa
Er leone riconoscente
Nel deserto dell’Africa, un Leone
che j’era entrato un ago drento ar piede,
chiamò un Tenente pe’ l’operazzione-
– Bravo! – je disse doppo – io t’aringrazzio:
vedrai che te sarò riconoscente
d’avemme libberato da ‘sto strazzio;
qual’è er pensiere tuo? d’esse promosso?
Embè, s’io posso te darò ‘na mano… –
E in quela notte istessa
mantenne la promessa
più mejo d’un cristiano;
ritornò dar Tenente e disse: – Amico,
la promozzione è certa, e te lo dico
perchè me so’ magnato er Capitano.
L’omo e la scimmia
L’Omo disse a la Scimmia:
– Sei brutta, dispettosa:
ma come sei ridicola!
ma quanto sei curiosa!
Quann’io te vedo, rido:
rido nun se sa quanto!…
La scimmia disse: – Sfido!
T’arissomijo tanto!…
La ranocchia ambizziosa
Una Ranocchia aveva visto un Bove.
– Oh! – dice – quant’è grosso! Quant’è bello!
S’io potesse gonfiamme come quello
me farebbe un bel largo in società…
Je la farò? chi sa?
Basta… ce proverò. –
Sortì dar fosso e, a furia de fatica,
s’empì de vento come ‘na vescica,
finché nun s’abbottò discretamente;
ma ammalappena je rivenne in mente
quela ranocchia antica
che volle fa’ lo stesso e ce schiattò,
disse: – Nun è possibbile ch’io possa
diventà come lui: ma che me frega?
A me m’abbasta d’esse la più grossa
fra tutte le ranocchie de la Lega…
(Cento favole, Mondadori, Milano 2012)
Adīb Kamāl ad-Dīn
Divertente, strano e stupendo
1
– “Oh poeta come ti chiami ?”
– “L’uccello”.
– “E poi?”
– “ Il pesce”.
– “Il pesce?”
– “Sì”.
– “Questo si che è divertente!”
2
– “ Di che colore è il mare?”
– “Il suo colore è fatto di barche e di donne”.
– “E la libertà che colore ha?”
– “ Ha il colore del pane e del sale”.
– “Del pane e del sale?”
– “Sì”.
– “Questo si che è simpatico!”
3
– “E come scrivi?”
– “Entro nella lettera, e circondo la mia vite con il suo segreto,
piango e mi addormento.
Sogno, deliro, ballo e poi muoio”.
– “ e poi muori?”
– “Sì”.
– “Questo si che è triste!”
(Traduzione a cura di Asma Gherib)
James Joyce
Per un fiore dato alla mia bambina
Gracile rosa bianca e fragili dita
di chi l’offerse, di lei
che ha l’anima più pallida e appassita
dell’onda scialba del tempo.
Fragile e bella come una rosa, e ancora
più fragile la strana meraviglia che veli
ne’ tuoi occhi, o mia azzurro-venata figlia.
(Tutte le poesie – Eugenio Montale, Mondadori, Milano 1995)
Gianni Rodari
Il povero ane
Se andrete a Firenze
vedrete certamente
quel povero ane
di cui parla la gente.
È un cane senza testa,
povera bestia.
Davvero non si sa
ad abbaiare come fa.
La testa, si dice,
gliel’hanno mangiata…
(La “c” per i fiorentini
è pietanza prelibata).
Ma lui non si lamenta,
è un caro cucciolone,
scodinzola e fa festa
a tutte le persone.
Come mangia? Signori,
non stiamo ad indagare:
ci sono tante maniere
di tirare a campare.
Vivere senza testa
non è il peggio dei guai:
tanta gente ce l’ha
ma non l’adopera mai.
Il povero Tommaso
E questa è la canzone
del povero Tommaso
che passava le giornate
a guardarsi la punta del naso.
Dalla mattina alla sera
al suo naso stava attento:
lo riparava dalla pioggia,
d’estate gli faceva vento;
se una mosca, per caso,
gli volava vicino
le gridava: – Pussa via!
Sta’ alla larga dal mio nasino.
Dove il suo naso finiva
per lui finiva il mondo:
non spinse mai più in là
il suo sguardo meditabondo.
E intanto che meditava
gli accadde pure questa:
la sua casa andò in rovina
e il tetto gli cadde in testa…
Lo sfasciarono tutto quanto,
lo portarono all’infermeria,
lo si sentiva piangere
in Austria e in Ungheria.
Non piangeva per il tetto,
questo bravo Tommaso,
ma perchè non vedeva più
la punta del suo naso.
(Il libro degli errori, Einaudi, Torino 1964)
La luna bambina
E adesso a chi la diamo
questa luna bambina
che vola in un “amen”
dal Polo Nord alla Cina?
Se la diamo a un generale,
povera luna trottola,
la vorrà sparare
come una pallottola.
Se la diamo a un avaro
corre a metterla in banca:
non la vediamo più
né rossa né bianca.
Se la diamo a un calciatore,
la luna pallone,
vorrà una paga lunare:
ogni calcio un trilione.
Il meglio da fare
è di darla ai bambini,
che non si fanno pagare
a giocare coi palloncini:
se ci salgono a cavalcioni
chissà che festa;
se la luna va di fretta,
non gli gira la testa,
anzi la sproneranno
la bella luna a dondolo,
lanciando grida di gioia
dall’uno all’altro mondo.
Della luna ippogrifo
reggendo le briglie,
faranno il giro del cielo
a caccia di meraviglie.
Il paese dei bugiardi
C’era una volta, là
dalle parti di Chissà,
il paese dei bugiardi.
In quel paese nessuno
diceva la verità,
non chiamavano col suo nome
nemmeno la cicoria:
la bugia era obbligatoria.
Quando spuntava il sole
c’era subito uno pronto
a dire: “Che bel tramonto!”
Di sera, se la luna
faceva più chiaro
di un faro,
si lagnava la gente:
“Ohibò, che notte bruna,
non ci si vede niente”.
Se ridevi ti compativano:
“Poveraccio, peccato,
che gli sarà mai capitato
di male?”
Se piangevi: “Che tipo originale,
sempre allegro, sempre in festa.
Deve avere i milioni nella testa”.
Chiamavano acqua il vino,
seggiola il tavolino
e tutte le parole
le rovesciavano per benino.
Fare diverso non era permesso,
ma c’erano tanto abituati
che si capivano lo stesso.
Un giorno in quel paese
capitò un povero ometto
che il codice dei bugiardi
non l’aveva mai letto,
se senza tanti riguardi
se ne andava intorno
chiamando giorno per giorno
e per la pera,
e non diceva una parola
che non fosse vera.
Dall’oggi al domani
lo fecero pigliare
dall’acchiappacani
e chiudere al manicomio.
“È matto da legare:
dice sempre la verità”.
“Ma no, ma via, ma va’…”
“Parola d’onore:
è un caso interessante,
verranno da distante
cinquecento e un professore
per studiargli il cervello…”
La strana malattia
fu descritta in trentatre puntate
sulla “Gazzetta della bugia”.
Infine per contentare
la curiosità
popolare
l’Uomo-che-diceva-la-verità
fu esposto a pagamento
nel “giardino zoo-illogico”
(anche quel nome avevano rovesciato…)
in una gabbia di cemento armato.
Figuratevi la ressa.
Ma questo non interessa.
Ca più sbalorditiva,
la malattia si rivelò infettiva,
e un po’ alla volta in tutta la città
si diffuse il bacillo
della verità.
Dottori, poliziotti, autorità
tentarono il possibile
per frenare l’epidemia.
Macché, niente da fare.
Dal più vecchio al più piccolino
la gente ormai diceva
pane al pane, vino al vino,
bianco al bianco, nero al nero:
liberò il prigioniero,
lo elesse presidente,
e chi non mi crede
non ha capito niente.
(Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi, Torino 1972)
Il nome
E adesso che sai fare il tuo nome
in bella scrittura,
non avere premura
di metterlo dappertutto,
non graffiarlo col carbone, col mattone
sui muri delle scale,
sugli alberi del viale, sui chiusini,
sui busti dei letterati e patrioti
che fanno la guardia ai giardini
con le barbe di marmo e gli occhi vuoti.
Soldati e scolari in libera uscita
si firmano sulla spada di Garibaldi,
sul cavallo di Anita.
Tu non lo fare. Il nome
è una moneta preziosa:
per le cose da poco non la spendere,
per oro e per argento non la vendere,
tienila sempre da conto
ma per le cose grandi
a gettarla sii pronto.
Tutto il mondo in filastrocca
Io metto il mondo in filastrocca,
sotto a chi tocca!
L’arrotino, lo stagnino,
il fornaio, lo spazzacamino,
l’operaio, il contadino,
il dottore, il fattorino,
la scopa della nettezza urbana,
la gru che svetta, la Befana,
e i Sette nani che strizzano l’occhio
alla Fatina di Pinocchio.
Quanta gente. A metterli in fila
sono più di centomila.
Io li metto in filastrocca:
sotto a chi tocca!…
E in filastrocca andremo a trovare
i bimbi d’Italia, dalle Alpi al mare:
quello che succhia una lagrimuccia
e rosicchia una cannuccia,
quello che dorme su un vecchio divano
e per coperta ci ha un pastrano,
quello che ha freddo, quello che ha pena,
quello che resta senza cena…
In filastrocca ad essi diremo:
“Tutto il mondo vi doneremo!
Vi metteremo nelle mani
città, palazzi, di cento piani,
i monti, il mare, la felicità:
è tutto vostro guardate qua!
Prendete tutto, la vita è bella!”
Anche tu, filastrocca, sei bella.
(Il secondo libro delle filastrocche, Einaudi, Trieste 1996)
Edmondo De Amicis
Sopra una culla
I
Sono tre giorni che ha ‘l visetto bianco
e gira l’occhio illanguidito e lento,
e non cerca la madre, e leva a stento
le braccia dimagrite e il capo stanco.
Parla, dottore- dimmi aperto e franco
la triste verità ch’io già presento;
e tu fa core, amica; – ecco il momento;
dammi la mano – e sta stretta al mio fianco.
È grave? -… assai? -… C’è da temer la morte?
Ebbene, amica – qui – qui sul cor mio,
e opponiamo al dolor l’anima forte.
Ma no! non posso! mi si spezza il core!
Ho bisogno di piangere! Mio Dio,
pietà! M’uccido se il mio bimbo muore!
II
Bambino mio, cos’hai? cosa ti senti?
Sorridi – guarda – moviti – respira;
non vedi il padre tuo, qui, che delira?
Non le senti le sue lacrime ardenti?
Non lacerarmi il cor co’ tuoi lamenti!
Oh dottore – soccorrilo – egli spira;
vedi come già trema, e come gira
gli sguardi tralunati e semispenti.
Che aspetti dunque? Di parole vane
non è più tempo! Salvalo per Dio!
Prova! Tenta! Non hai viscere umane?
No, no, perdona! Io son pazzo, lo vedi;
ma salva dalla morte il bimbo mio,
e bacierò l’impronta de’ tuoi piedi!
III
Come ha già il volto smorto ed affilato,
povero bimbo, povero angioletto!
Ah per pietà, coprite quel visetto;
non lo posso veder così mutato.
Appena appena gli si sente il fiato
ed un leggiero tremito nel petto;
sembra già morto – ha già mutato aspetto;
ha chiuso gli occhi – è immobile – è diacciato!
Dottore! Amica mia! Ma dunque è vero!
Egli morrà! Lo porteranno via!
Porteranno il mio bimbo al cimitero!
Il mio bimbo! Il mio cor! Ma rispondete!
Dite che è un sogno della mente mia,
o mi spezzo la fronte alla parete!
IV
Che? – C’è speranza ancor ch’egli non mora?
Non è la tua pietà – dottor – che mente?
È salvo se fra un’ora si risente?
Se fra un’ora il suo volto si colora?
Un’ora! Un’ora eterna! Un’ora ancora
per vederlo morir più lentamente!
Ma prima sarò anch’io morto – o demente,
o invecchierò di trenta anni in quest’ora.
Ebben – coraggio – starò qui prostrato,
muto – aspettando colle braccia in croce
che il mio povero bimbo sia spirato.
Ed aspetta anche tu – cara – pregando;
non alzar contro Dio l’incauta voce…
inginocchiati qui… te lo comando!
V
Pietà, tremendo Iddio! Pietà, Signore,
nel santo nome della madre mia.
Pietà del mio bambino in agonia,
non rapite quest’angelo al mio core.
Io redento dal pianto e dal dolore
vivrò una vita santa, umile e pia,
e non avrò più senso che non sia
bontà, dolcezza, pentimento, amore.
E se è fermo nel Vostro alto consiglio
ch’egli debba morir – ch’io non intenda
la voce che dirà: – non hai più figlio!
Datemi, eterno Iddio, questo conforto;
ch’io non la senta la parola orrenda,
ch’io resti prima o forsennato o morto.
VI
Povero core! Povero bambino!
Era un angiolo d’anima e d’aspetto;
pareva un fiore e qualche riccioletto
gli usciva già di sotto al cuffiettino.
La notte, lo cullavo – e sul mattino
venìa – nudo e ridente – nel mio letto,
e sgambettando mi puntava al petto
e contro il volto il suo rosso piedino.
Ed ogni sera – in lui rapito – chino
teneramente sul suo bianco nido
gli coprivo di baci il corpicino;
e in mezzo ai baci mi fuggìa dal core
un gemito, un singhiozzo, un riso, un grido,
e cadevo in ginocchio ebbro d’amore.
VII
Addio, mia bella vision fuggita,
bel sogno mio svanito sull’aurora,
larva adorata che brillasti un’ora
sul deserto cammin della mia vita!
Non tutta ancor l’anima mia smarrita
può intender il dolor che la divora;
ancor vaneggio; non lo sento ancora
tutto lo strazio della mia ferita.
Avrò per sempre il mio bimbo morente
dinanzi agli occhi – ed il mio labbro muto
cercherà la sua fronte eternamente.
Arte, fede, avvenir, gloria, fortuna,
speranze, gioventù – tutto è perduto;
tutto è morto e sepolto in questa cuna.
VIII
No! Non lo credo! Tu m’inganni! Giura
che dici il vero! Per pietà, dottore,
non lacerarmi un’altra volta il core,
non ti far gioco della mia sventura!
È uno scherno crudel della natura!
È un vano inganno! È un sogno mentitore!
È salvo? Vive? Vive ancor? Non muore?
Ah! la povera mente mia s’oscura!
Indietro tutti – via da me – lasciate
ch’io profonda sul mio santo angioletto
questa piena di lacrime infocate!
Ride! Parla! Mi guarda! Eterno Iddio,
che il grande nome tuo sia benedetto!
Mio figlio è salvo – l’universo è mio!
(Pagine sparse, Zorini Editore, Milano 1896)
Edward Walsh
Ninnananna dei folletti
Dolce piccino! Una culla d’oro t’accoglie,
e lieve ti avvolge la coltre, bianca come neve;
ti veglierò in un arioso pergolato,
dove le fronde degli alberi ondeggiano nel vento.
Shuhin sho, lula lo.
Quando le madri languiscono, il cuore spezzato,
e le giovani spose han perduto i loro bei mariti,
ah! certo non sanno, povere addolorate,
che piangono solo un folletto, dal tempo consumato.
Shuhin sho, lula lo.
Dentro le nostre magiche e splendenti sale
passano molti piedi bianchi come neve:
fanciulle rapite, regine dei folletti,
e re e condottieri, tutta la fatata schiera.
Shuhin sho, lula lo.
Riposa, piccino! Ché io t’amo tanto,
quasi quanto la tua mamma mortale;
nostro è il destriero più veloce e fiero
che va ove il nemico calpestio è più forte.
Shuhin sho, lula lo.
Riposa, piccino! Ché preso il tuo sonno
svanirà con le note della koelshie1;
ti veglierò in un arioso pergolato,
dove le fronde degli alberi ondeggiano nel vento.
Shuhin sho, lula lo.
1 musica fatata
(Fiabe irlandesi raccolte da W.B. Yeats, Newton, Roma 1994)
Sergej Stratanovskij
Per bambini
L’orso di zucchero
e il panino leporino ai semi di papavero
ma molto più buono di tutto è, certo, il kolobok
Soltanto lui è vivo
e non vuol essere cibo
sentilo, borbotta in lingua cotta
nella favella fornarella, farinella
vedi: trotrotta e si trasporta oltre la porta
e poi via via, a rotta
di collo per il campo nero della notte.
(Buio diurno, Einaudi, Torino 2009)
Iosif Brodskij
Discovery
Nel principio c’erano soltanto onde
a battere gli scogli.
Le stelle sfilavano tra le fronde
senza pretendere Oscar.
Le nuvole si spingevano un po’ oltre
con fare impertinente,
bisticciavano gettando una coltre
buia sul continente.
Scoprirono l’America per primi
i pesci, che sapendosi mortali
e destinati a piatti sopraffini,
non tramandano note e memoriali.
Poi la scoprì la stirpe degli uccelli,
gli striduli gabbiani e gli stornelli.
Pellegrini erranti per natura, solo
alcuni trovarono una casa sicura.
Per milioni di anni o più – dice la gente –
la Natura rimase a guardare:
l’America c’era e non c’era,
chissà, forse aspettava primavera.
Ma all’America importava poco o niente
che di lei non si facesse menzione.
Quando sei un grande continente
non cerchi l’altrui attenzione.
Allora la Natura prese la penna, perchè tutti
e non solo gli uccelli, i pesci e i flutti,
sapessero che l’America era vera,
così il mare portò genti della terra intera.
Percorsero con le loro greggi
questa terra di latte, miele e fiori,
vi trapiantarono molte leggi,
fattorie, città, ori e tesori.
Ora l’America trabocca di mappe e di cartigli,
tanti da riempire credenze e ripostigli.
Ma guarda in fondo al cuore, e sii sincero:
l’America è stata scoperta per davvero?
Non credi che sia piena di misteri
ancora da svelare? E che a te ora
spetta scoprirli, mentre volentieri
la Natura instancabile lavora?
(Discovery, Mondadori, Milano 1999)
Umberto Saba
Ninna-nanna
Fa la nanna, bambin. Nell’altra stanza
veglia tua madre, e il cuore le si spezza,
sola. E una lieta ti annuncio certezza:
più non ritorna il tuo cattivo padre.
Oggi tuo padre
son io. Mi assumo, e m’è lieve, il tuo affanno.
I tuoi dolori e le tue gioie vanno
pei cieli azzurri come squille d’oro.
Se v’è un tesoro
nel mondo sarà tuo – e lo senti – un giorno.
Domani, come il sol farà ritorno,
tra balio e balia ti sveglierai.
Tu li vedrai,
le manine battendo come a un gioco,
portarti il cibo appena desto, un poco
contendersi i tuoi primi ingenui amori.
Semplici cuori
ti concede, all’inizio, il tuo destino,
perchè, riconoscente ad essi, e fino
alla morte, non ami tu altra cosa.
La paurosa
notte è nemica ai pargoli mal desti.
Possono indizi scoprirvi funesti,
veder cosa che impetra al muto orrore.
Nessun dolore
ti viene in sogno dalla tua adorata.
È la goccia di nettare che data
t’è per sola una volta, e per nulla.
Nella sua culla
dorme il tuo amico e rivale Armando,
che ti piace col pugno a quando a quando
mandar piangente sulla nuda terra.
Diversa guerra
t’attende, di maggiori rischi ingombra.
Forse presso ad avvolgerti è già l’ombra
che muterà in tristezza il tuo coraggio.
Del tuo viaggio,
che lungo io penso e quasi occulto, un’orma
dietro ti lascerai, profonda. Or dorma
l’anima tua; di più dirti non posso.
Domani in rosso
dipinto o in giallo, e col suo verde stelo,
la balia un fiore ti farà di un velo
di carta, a riguardar meraviglioso.
Lieto il suo sposo,
a lei tornando dal lavoro, un dono
ti recherà, molto gradito. È buono
con te il tuo balio, il mite macellaio.
Qual è il più gaio
lo sai di tutti i giochi e il più piacente.
E lo sa la tua amica, che ridente
si getta, o ad arte minacciosa, al suolo;
e là, tra strilli acutissimi, solo
ti gode a sola. Ché, nel suo pensiero,
è lei tua madre, e il suo figlio vero,
cui prende e giura amorosa costanza.
Nell’altra stanza
veglia una donna e il cuore le si spezza,
sola. Ti viene di là la tristezza
che avvolge la tua vita a poco a poco.
(Il Canzoniere, Einaudi, Torino 2004)
Aleksandr Puskin
Zar Nikita e le sue quaranta figlie
C’era un tempo zar Nikita,
ricco, in ozio, in allegria,
bene o male non faceva,
e fioriva la sua terra.
Un pochino egli lavora,
mangia, beve, prega Iddio;
e da più madri diverse
generò quaranta figlie.
Quarant’ottime fanciulle,
quarant’angeli del cielo,
belle d’anima e di cuore.
Dio mio! che piedino, –
che testina, chioma bruna;
che incanto, occhi e voce;
ed il senno: da impazzire.
Dalla testa ai piedi: tutto
ti prendeva, anima e cuore.
Sol mancava una cosina.
Che cos’è questo qualcosa?
Ma così, inezie, un nulla.
Beh: o nulla, o molto poco,
tuttavia essa mancava.
Come fare per spiegarlo,
e non far montare in bestia
quella sciocca, pia, altezzosa,
della rigida censura?
Come fare?… Dio mio, aiuto!
Tra le gambe, alle zarevne…
No: così è troppo in chiaro
– e il pudore violerebbe, –
beh, mettiamola a tal modo:
amo in Venere io il seno,
e le labbra, e più il piede,
ma acciarino dell’amore,
mèta della mia passione…
Che cos’è?… Ma niente, niente!…
Niente, ovvero molto poco…
Proprio quello che mancava
alle giovani zarevne
tutte vispe e birichine.
Quella nascita sì strana
gettò proprio in imbarazzo
tutti i cuori della corte.
Che tristezza, per il padre,
per le povere mammine…
Come il popolo lo seppe
dalle donne-levatrici –
spalancò ciascun la bocca:
che stupore, che sgomento;
se qualcuno ridacchiava,
lo faceva di soppiatto,
a Nercinsk per non andare.
Convocò lo zar la corte,
e le njane e le mammine –
ed emise un’ordinanza:
«Se qualcuno tra di voi
corrompesse le bambine,
o facesse far pensieri,
o soltanto vi alludesse
(dico a ciò di cui son prive),
o facesse doppi sensi,
o facesse dei gestacci, –
non son uso di scherzare:
alle donne, zac!, la lingua,
ed ai maschi un ché di peggio,
che talor si fa più duro».
Era zar severo e giusto,
e il suo ordine eloquente;
s’inchinò ciascun con tema,
ben decisi a stare all’erta
con le orecchie bene tese,
a guardare il proprio bene.
Paventavano le mogli
che sgarrassero i mariti;
e i mariti, dentro dentro:
«Fanne una, moglie mia!»
(quanta rabbia c’era in cuore!)
Venner su le mie zarevne:
quale pena! Nel consiglio
lo zar porta il suo problema:
è così e cosà, è chiaro?
zitto, piano, sottovoce,
fate più attenzione ai servi.
Rifletterono i bojari
come rimediare al guaio.
Ecco, un vecchio consigliere
riverì tutti – e d’un tratto
si batté la calva fronte
con la mano, e gracchiando:
«o saggissimo sovrano!
Non punire il mio ardimento,
se racconto una sconcezza
corporale, d’una volta.
Conoscevo una ruffiana
(dove sta? che farà oggi?
certo, quel che già faceva).
La tenevano per strega,
rimediava a tutti i guai,
e dei membri all’impotenza.
Giusto lei devi trovare,
e la strega farà tutto,
metterà quel che bisogna».
«Che si mandi alla ricerca! –
zar Nikita prende a urlare,
aggrottando i sopraccigli:
«Trovar subito la strega!
E se poi c’ingannerà,
– non ottiene quel che serve,
o ci mena per il naso,
o se mente a bella posta, –
non sarò più zar, ma un fesso,
se un lunedì di magro
non farò bruciar la maga:
e con ciò supplico il cielo».
In segreto, di soppiatto,
con mandato di corriere,
messi vennero inviati
agli estremi della terra.
Al galoppo, ovunque vanno,
alla cerca della maga.
Passa un anno, passa l’altro –
non ne giunge alcuna nuova.
Ma, ecco, infine uno zelante
imboccò la traccia buona.
S’inoltrò in un cupo bosco
(certo, lo portò il demonio),
c’è nel bosco una casetta,
e la strega, una vecchina.
Era un messo dello zar,
quindi entrò dritto da lei,
riverì la strega, asciutto,
ed espose la questione:
come nacquer le zarevne
e di cosa erano prive.
Capì tutto in un istante…
Alla porta spinse il messo
e gli fece: «Esci in fretta:
non ti devi poi voltare,
che, se no, febbre ti colga…
Torna quindi fra tre giorni,
per l’inoltro, e la risposta;
ma ricorda: al far dell’alba».
Poi la strega si rinchiuse,
si munì d’un carboncino,
strologò per tre giornate,
adescò il suo demonio.
Quello le portò uno scrigno,
– per l’inoltro poi a palazzo –
tutto pieno di cosine
sconvenienti, e idolatrate.
E ve n’eran d’ogni fatta:
d’ogni taglia e d’ogni tinta,
tutte scelte e ricciolute…
Le selezionò, la strega,
scelse le quaranta meglio
ed avvolte in un bel panno
le richiuse nello scrigno;
quindi licenziò il messo,
con dei soldi per il viaggio.
Egli va; rosso è il tramonto…
Ebbe voglia di riposo,
e di fare uno spuntino,
di saziarsi poi di vodka:
era un provvido ragazzo,
ben munito per il viaggio;
e così sbrigliò il destriero,
a mangiar si mise calmo.
Pascolò il cavallo. Lui
pensa alla ricompensa:
conte, principe; chissà.
Ma che c’è dentro lo scrigno?
Cosa invia allo zar la strega?
Spia da una fessura: niente!
Proprio chiuso. Che peccato!
La curiosità lo prende,
e lo rende tutto ansioso.
Alla toppa pon l’orecchio –
ma l’udito nulla avverte;
fiuta – sente un noto odore…
Accidenti! che cos’è?
Ma che male c’è, a guardare?
Più non resistette il messo…
Ma, lo scrigno appena aperto,
via!, le passere a volare:
si posarono sui rami
rigirando le codine.
Dài, le chiama, il nostro messo,
e le invoglia coi biscotti:
sparge briciole, ma invano
(non è ciò di cui han fame):
là sui rami il canto è bello,
ma perché restar rinchiuse?
Si trascina per la strada
una vecchia con la gruccia,
tutta curva come un arco.
Si gettò ai suoi piedi il messo:
«Ci rimetto qui la testa!
dammi aiuto, mia mammina!
Guarda tu quale disgrazia:
io non riesco più a acchiapparle!
Come mi trarrò d’impaccio?»
La vecchina guardò in alto,
poi sputò, e bisbigliando:
«Non ti sei portato bene,
ma non piangere, su, forza…
Basta sol che gliela mostri,
e vedrai che volan giù».
«Bene, grazie!», disse quello…
Non appena lo mostrò,
giù le passere da lui,
e ripresero l’alloggio.
Per non correre altri guai,
senza fare tante storie
le rinchiuse sotto chiave
e si mosse verso casa.
Consegnate alle zarevne,
le ingabbiarono all’istante.
Gioia immensa dello zar:
diede subito gran festa.
Sette giorni di baldoria,
di riposo un mese intero.
Decorò il Consiglio tutto,
né dimenticò la strega:
le inviò dalla Kunstkàmera
sotto spirito un bel móccolo
(che stupiva tutti quanti),
due scheletri e due vipere,
dal medesimo museo…
Anche il messo fu insignito,
e qui termina la fiaba.
(Fiabe in versi, Marsilio, Venezia 2004)
Anna Achmatova
Fiaba dell’anello nero
1
Dalla nonnetta-tatara
di rado avevo doni;
perchè ero battezzata
assai s’adirava.
Ma avanti di morire s’addolcì
ed allora mi compatì
e sospirò: “Ah, gli anni!
Ecco che è giovane la nipotina”.
E, perdonato il mio brutto carattere,
volle lasciarmi un anello nero.
Disse così: “È fatto per lei,
le renderà più allegra la vita”.
2
Ai miei amici ho detto:
“Molta pena, poca gioia”.
E sono uscita coprendomi il viso;
l’anello avevo smarrito.
Hanno detto i miei amici:
“L’anello ovunque abbiamo cercato:
nella sabbia sul mare,
nel praticello fra i pini”.
A raggiuntami al viale
il più ardito di tutti loro
mi voleva far aspettare
fino al declivio del giorno.
Mi stupii del consiglio
e con l’amico m’arrabbiai
perchè i suoi occhi erano teneri:
“A cosa mi giovate?
Non sapete che scherzare
e vantarvi l’un con l’altro
e portare fiori qui”.
Dissi a tutti di andar via.
3
Ed andando nel tinello
gemevo come un uccello di rapina,
mi gettai sul letto
cento volte a ricordare:
come a cena sedevo,
gli occhi scuri guardavo,
come non mangiavo, non bevevo
alla tavola di quercia,
come sotto la tovaglia ricamata
io tesi il nero anello
come in viso mi guardò,
e levatosi all’entrata se ne andò.
…………………………………………
Ciò che ho perduto non mi porteranno.
Lontano sulla barca veloce
biancheggiarono le vele,
rosseggiarono i cieli.
(Luna allo zenith e altre poesie, Passigli, Firenze 2007)
Sibilla Aleramo
Per ore da bimbo…
Per ore da bimbo ascoltavi
un filo d’acqua cadere e cantare.
Amo quel bimbo ch’era solo.
Negli occhi di color chiaro
era tanta già eco d’armonia.
Per ore il mondo della tua speranza
silenzioso ornavi di bei fiumi
e d’alte rive certo e di alti cuori.
Un filo d’acqua cadeva e cantava.
Amo quel bimbo ch’era solo.
Grandi occhi, figlio
Grandi occhi, radianti, buoni,
figlio, avevi stanotte nel mio sogno,
nel tuo viso d’uomo che m’è ignoto,
figlio,e a me t’accostavi e mi baciavi,
tutto era assolto in silenzio e sorriso,
un tremore una dolcezza santa
ci riunivano come all’alba tua natale
dopo che da me staccato a me ti strinsi.
(Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2009)
Fedro
La rana scoppiata ed il bue
Il povero, mentre vuole imitare il potente, muore.
Una volta una rana nel prato vide un bue,
e toccata dall’invidia per le sue enormi dimensioni
gonfiò la pelle rugosa. Poi chiese ai suoi
figli se fosse più grossa del bue.
Loro dissero di no. Di nuovo gonfiò la pelle
con maggiore sforzo e chiese allo stesso modo
chi fosse il più grande. Loro dissero “Il bue”.
Alla fine sdegnata, mentre voleva di più ancora
gonfiarsi, scoppiato il corpo, morì.
(traduzione di Alessandro Canzian)
Fernando Pessoa
Meditazione del nonno e balocchi del nipote
Vedendo il nipote giocare
dice il nonno, rattristato:
“Ah, potessi tornare
a essere così occupato!
Tornare al tempo in cui
facevo castelli così,
lasciando che restassero
a volte per il giorno dopo;
e tutta la mia tristezza
era, destandomi per vederlo,
vedere che la serva già aveva
riposto il mio castello”.
Ma il nipote non lo ode
perchè è preoccupato
per l’errore che c’era
al portone per il soldato.
E, mentre il nonno pensa, e, triste,
rimembra l’infanzia andata,
mai più una casa esiste
o un altro castello cade;
e il nipote, infine guardando
e vedendo il nonno piangere,
dice “È caduto, non importa:
lo rifaccio subito”.
Il mio bambino
Il mio bambino non dorme,
non so come dormirà.
Fuori la notte è enorme
e non c’è luna, non c’è…
il mio bambino piange, piange,
non riesce a riposare.
Or l’ho girato verso me,
ma non dorme, non riesco…
già ho cantato quanto si canta…
già gli ho parlato dell’orco…
già gli ho detto come incanta
la fata che ne ha potere…
Ma lui non dorme; vedo
sempre i suoi occhi aperti…
Gli do un bacio e ancor un bacio
e stende le braccia destate…
Dormi, bambino, dormi
che la mammina dormirà!
Fuori la notte è enorme…
Dormi, bambino mio, dormi
che già ti vedo sorridere…
(Il mondo che non vedo, Bur, Milano 2010)
Mihai Eminescu
Tra uccelli
Perchè non siamo due uccelli
sotto il ripario di una macchia,
per star vicini, becco nel becco,
in un nido di sole piume?
Non mi farai mica rimproveri
coll’appuntito tuo beccuccio,
e fianco a fianco con me
starai poi davvero bene?
Lascia che per pianga di pietà
e che baci le tue mani…
Care manuzze, che avete fatto
per tante settimane?
(Poesie d’amore, Bona, Torino 1964)
Pieraldo Marasi
La rivolta dei burattini
C’era un burattinaio,
purtroppo senza bambini,
che aveva un salvadanaio
e diciotto burattini.
Nel salvadanaio metteva
solo quei pochi soldini
che alla sera raccoglieva
in piazza dai cittadini
con le cento piroette
del signor Pulcinella,
con lazzi e canzonette
di Colombina, la sua bella.
Ma vedendo che il guadagno
era sempre magrolino
si chiuse dentro al bagno
per studiare un programmino.
Guardandosi allo specchio
si disse minaccioso:
“Che fai, stupido vecchio,
vuoi metterti a riposo
o dichiari fallimento?
La gente vuol vedere
qualcosa di violento:
il sangue vuol vedere
e botte e pugni e spari,
feriti a tonnellate
e un morto che magari
vien preso a bastonate.
Ebbene, da stasera
miei cari burattini
farete una cagnara
che porti più quattrini!”
Armati fino ai denti
di fucili e manganelli,
senza tanti complimenti
cominciarono i duelli
e già il pubblico felice
incitava il più forzuto
ad uccidere anche Alice
con il cane sordomuto.
Ma i diciotto burattini,
visto il brutto cambiamento,
non sentendosi assassini
se ne andaron contro vento.
Quando il vecchio brontolone
che tirava tutti i fili
ordinava un gran ceffone
da spostare cento chili,
il pupazzo rispondeva
ritirando la manina
che a mezz’aria rimaneva
una manina bandierina.
Il coltello non feriva
ma cadeva lì per terra,
il fucile non sparava
e sembrava una chitarra.
Imbrogliati tutti i fili
i pupazzi han contestato
nelle piazze e nei cortili
finchè il vecchio s’è accasciato:
è tornato a far cantare
Colombina e Pulcinella,
Alice ancora fa volare,
al cane dà una caramella.
E i diciotto burattini
son convinti di una cosa:
guadagnar meno quattrini
è una sorte favolosa
se puoi dare un po’ d’amore
anche a chi non vuol sentire.
Giovannino sbruffoncello
Se al caffè entro per caso
non mi dite ficcanaso:
potrei rompere anche un vaso
se mi vien la mosca al naso!
Sono bravo e coraggioso
sono un tipo strepitoso
e parlar farò di me.
Voglio fare il cavadenti
per leoni ed elefanti,
voglio andare a Singapore
con i pattini a vapore,
voglio prendere i serpenti
e farne poi stuzzicadenti
per il Mago del Perù.
Andrò anch’io sulla luna
e aprirò una pensioncina
con tre cuochi giù in cucina
e nel parco una piscina
colma d’acqua e granatina:
dalla sera alla mattina
farò soldi come un re.
………………………………………………….
(Ma cos’è questa vocina
che mi sento dentro al cuore
mentre parlo della luna
e dei viaggi a Singapore?)
………………………………………………….
“Giovannino, sbruffoncello…
Scendi, scendi, amico bello
dal tuo fragile castello
fatto solo di parole.
Apri gli occhi, guarda il sole:
con curiosa fantasia
scopri questa tua città,
vedi quanto giusto sia
imparare la realtà.
Troverai cose soavi
cose tristi e brutti guai,
non le cose che speravi
ma la vita troverai…”
(La rivolta dei burattini, Rizzoli, Milano 1971)
Renato Pauletto
Il vento
Da quando le navi vanno a motore
il vento s’è messo a fare il barbone.
Dimora sui marciapiedi e alza
le gonne alle donne,
raccoglie carte e cartoni
sibila come un solista all’angolo della strada.
Beve la birra che costa meno:
la schiuma che lui stesso
dal mare solleva;
così ha messo un gran pancione
e quando s’infila in qualche soffitta,
non passa, rovescia tegole e mattoni.
E i giornali pronti a parlare
di tromba d’aria, e perché
non di clarinetto?! O di viola?!
Il vento non conosce mica
una musica sola.
Sono entrato in un nebbione denso:
una mano andava a spasso,
si muoveva senza senso
l’ho stretta a più non posso;
un sorriso ballava nell’aria
l’ho ricambiato appena s’è avvicinato,
s’è parato davanti un addome
senza braccia nè nome
ci siamo calpestati
e a malapena salutati.
Poi la nebbia s’è fatta fine,
è finita infine;
quelle visioni stanno appese alle mie ciglia
dentro ad ogni umida e minuscola biglia.
Il grillo
Che strano suonatore è il grillo:
intanto non canta solo di sera,
ma ogni volta che ne ha voglia,
poi non vuole nessuno tra i …
fili d’erba,
e se sente il tuo piede
rimette via la chitarra
e ritorna nelle tasche della terra.
Se proprio lo vuoi vedere,
lo devi solleticare
con un docile filo d’erba,
allora compare
e fa l’inchino da soprano
ma non risuona il suo brano.
L’albero delle risate
Melograno
più melo d’estate
poi pieno di facce,
bocche rotte dalle risate
piene di denti,
teste di clowns sul ramo,
in autunno più grano
che melo il melograno.
La brina
Ogni ciuffo rivestito di bianco
ogni albero coperto d’argento,
ricami sui rami, merletti sui tetti
trama e matassa… tutto sparso
per la fuga dell’invisibile sarto,
fili di seta sorti come viole
e sciolti dal primo alito del sole.
Giocogiglio
Alla prima altalena
ero tutto avvinghiato
come un ramo d’edera;
le corde col tempo
son diventate liane,
e ali le mani;
e sulla tavoletta
andavo anche in piedi
camminando nel cielo;
avevo le nuvole in bocca ,
succhiavo i fiori di tiglio,
infilavo il piede nel giglio;
ma feci un gran tuffo
e la tavoletta a penzoloni
rimase ad accarezzarmi il ciuffo.
Giococolore
Non conosco i colori
nemmeno le sfumature,
allora sfoglio dell’orto
frutti e verdure:
c’è una fragola carnosa
forse è rosso carminio!?
Ce n’è una piena di polpa
è forse rosso porpora!?
L’altra è pelosa porta
una maglietta bordeaux?
Scarto una piccola
è di color scarlatto!?
Assaggio quella cremosa
è di color cremisi?
Ce n’è una tumefatta,
è rosso mattone?
Ormai credo d’aver
fatto un’indigestione!
Ma ho visto la più grossa dell’orto,
non c’è dubbio è color fragola
me la mangio e taglio corto.
Uno starnuto di primavera
Lungo una riva, a schiera
ci sono viole bianche
tra erbe secche e stanche,
prime primule a mucchio
in mezzo all’ultimo muschio:
uno starnuto di primavera.
Finestre accese
Dove vanno
quelle finestre accese
in corsa di notte?
Le ha rapite
il treno.
Le ha raccolte
alle stazioni.
Con attorno sagome
nere sembra che il treno
si trascini
un intero quartiere.
Eppure il locomotore
va leggero,
s’attacca ad un filo
si dà una spinta
fino alla prossima fermata.
Giusto il tempo
per il bigliettaio
di forare un pisolino,
un racconto letto d’un fiato,
un fitto discorso nato per caso,
e di prendere un abusivo per il naso.
Quel bigliettaio
è come un uncinetto
che attraversa tutto il treno.
Senza, il viaggio sarebbe perfetto.
Perchè fischia il dipintore?
Fischia per farsi coraggio,
quanti chilometri dovrà fare
sempre a passeggio
per muri tutti uguali?
Un velo per volta,
quanti fiumi di colore
dovrà versare?
Quanti pioli dovrà salire
senza arrivare in Paradiso?
Tenersi tutto il giorno
quelle stampelle!
Eppure fischia, perchè
sospeso nel vuoto
gli pare d’essere un geco
anzi un uccello,
l’unico a colorare davvero
un pezzo di cielo “vero”.
Ho scovato una canna da pesca
rovescio vasi di fiori ma non trova l’esca,
compro allora le tremoline
ed in frigo le metto, tra le sardine,
per mia madre la scatola è un invito
e scoppia in un urlo inaudito;
poi corro al mare, la canna è allungata
arriva presto l’orata.
Ormai ho la “licenza” di pescatore
e mi faccio un bagno ristoratore:
in una buca trovo una famiglia di ricci
penso di usarla per giocare alle bocce,
tiri corti
perchè vanno via storti.
Cewingum?
Cewingum? lo prendiamo!
Sottile, infrangibile ed elastico
taglia il vento e la barriera avversaria,
si confonde con la traccia
di calce, steso a terra,
può rubare il pallone al portiere
senza che l’altro se n’avveda.
Circa a salsiccia lo mettiamo in porta
se non arriva ai pali non importa:
stenderemo in caso di “mani”
Cewingum tra un incrocio e l’altro dei pali.
Oppure sempre a lui certi avversari
gli faremo legare come asparagi.
E se l’arbitro ha un debole contrario
gli daremo il benvenuto con un canestro:
Cewingum dentro tutto arrotolato
la sua smorfia di cobra
e avremo presto il campionato.
L’ape
Un tempo s’arrangiava
e cercava casa nel cavo del pioppo,
non più di tanto l’orso la scippava,
niente, al confronto dell’apicoltore ghiotto,
che le svuota la dispensa con la scusa
che lui la ospita nella sua casa.
Così l’ape è priva di privacy,
l’apicoltore entra quando vuole,
minaccia un incendio con l’affumicatore
e ogni ape, di miele s’infagotta,
mentre lui prende ciò che sta in soffitta.
Se poi all’inizio della primavera
tarda un poco, lui la sveglia
con lo zucchero sciolto.
Lunghi giri di ricognizione:
-Tarassaco 20° ad est!
dice l’ape che balla,
una delle poche ad uscire
dopo che il tempo “sballa”.
Poi la compagna segnala l’acacia in fiore,
tutte in volo si mettono fin dall’alba.
Venne l’ora più calda,
sui campi d’intorno passò un trattore
portandosi seco un gran cisternone,
ricopriva i fiori di un’opaca rugiada,
le sue compagne fecero i lor giro
e tornarono all’arnia
imbrattate di quella fetida arma.
Come le sorelle, fu presto accecata:
grilli impazziti ed azzoppati
volavano nell’arnia all’impazzata.
Ma nel condominio non si reca disturbo
e le api di guardia le accompagnano all’uscio.
Lì, la vide l’ispettore chiamato
con denuncia, per la moria,
lui disse che l’insetto era accaldato;
l’apicoltore obiettò che al predellino
non stavano aggrappate a sbatter le ali,
il dottore fece finta di niente,
un po’ meno quando un’ape lo punse
giusto sulla (lunga) punta del naso.
Sul finire dell’estate,
furono dai fumenti intossicate
per scrollare l’acaro parassita;
la nostra, sgomenta e sfinita,
si ridusse ad aver poche compagne
che, non per le lagne
si strinsero alla regina,
ma l’inverno ebbe di loro ragione.
Pare non siano estinte,
in un’isola lontana dalla terraferma,
là, dove il sole si ferma,
ve ne sono che non si danno per vinte.
(inedite)
John Ronald Reul Tolkien
Il gatto
Il gatto ben pasciuto
che sta sullo zerbino
sembrerebbe che sogni
di topi uno spuntino
saporito e abbondante
e panna a sazietà.
Ma può darsi, chissà,
che pensoso cammini,
indomito ed altero,
dove i padri felini
ruggivano davvero;
combattevano scarni
e scaltri, e nelle tane
profonde si acquattavano
per saziare la fame.
A Oriente banchettavano
con bestie prelibate
e di teneri uomini
con carni delicate.
Il più antico felino,
il leone gigante,
sfoggia artigli d’acciaio
sulle robuste zampe.
Ha gran denti crudeli
e fauci insanguinate.
Ci son poi le pantere,
belve nero-stellate
dalle zampe leggere,
che spesso con un salto
balzan sopra la preda
elastiche dall’alto.
Là dove assai lontana
nereggia la foresta
nell’ombra, cupa e arcana.
Lontani sono ancora,
son liberi e selvaggi.
Il gatto è sottomesso
fatto schiavo dagli agi.
È un gatto ben pasciuto
che sta sullo zerbino;
è curato e tenuto
come un bel gingillino.
Che sogni topi e panna
potrebbe anche sembrare;
ma il suo cuore felino
non può dimenticare.
(Le avventure di Tom Bombadil, Rusconi, Milano 1989)
Janna Carioli
Tacche sul muro
La mamma col righello e la matita
vuol controllare quanto son cresciuta.
Quei segni sulla porta di cucina
li ha fatti da quando ero una bambina:
asilo, elementare e adesso media…
è un po’ come salire sulla sedia!
Tacche sul muro, ognuno con la data,
raccontano di quanto son cambiata.
Io cerco di barare un pochettino
e allungo il collo come fa il tacchino,
ma la mamma fa il segno al posto giusto
“Se tu bari”, mi dice, “non c’è gusto!”
Guardo il mio tempo, scritto sopra il muro…
Son cresciuta due dita di futuro!
Mi sento solo
Mi sento solo come un verme solitario,
come un cammello quando incontra un dromedario,
come la freccia quando vola via dall’arco,
come un gorilla nella gabbia del bioparco.
Mi sento solo come un punto esclamativo,
come un articolo se manca il sostantivo,
come un incastro che non sa qual è il suo posto giusto,
come un cucciolo abbandonato a ferragosto.
Mi sento solo come un anno bisestile,
come una perla che finisce in un porcile,
come un pollastro che conosce il suo destino.
Mi sento solo come solo può un bambino
(I sentimenti dei bambini, Mondadori, Milano 2009)
Davide Rondoni
Ciao
È una parola che viene da lontano
il saluto simpatico
che tutto il mondo intende.
Lo diceva l’antico veneziano,
se qualcuno stava incrociando
faceva segno di un inchino
e “sciavo vostro” diceva piano
come rispetto e riverenza.
Il tempo che ha gran pazienza
ed è un grande inventore
di nomi e di parole
ha avvicinato piano “sciavo”
d’esse e vu facendo senza
e ha messo in bocca a tutti
il saluto più bello che ci sia.
Mette subito allegria
ed è bello ricordare
che a chi lo dici è come dire
siamo amici, ti voglio servire.
Il treno
Il treno mi piace,
sarei capace
di prenderne cento
tra tutta la gente
come in un vento.
Il treno mi garba
dovunque si vada
non è una barba
tutti in fila tutti lenti
come l’autostrada.
Puoi ascoltare le chiacchiere
suonare (ma piano) le nacchere
fare un pisolino
guardare il panorama
conoscere il vicino.
Il treno mi sconfinfera
non è mica soporifera
la vita nei vagoni,
di cose buffe
se ne sentono milioni.
Se pensi che la vita sia noiosa
fai una cosa:
sali su un treno per dovunque
scoprirai com’è ricco
un giorno qualunque…
(Le parole accese, Rizzoli, Milano 2009)
Chiara Carminati
Pirata Graffio e Capitan Losco
I
Pirata Graffio veleggia sul mare:
bandiera al vento col teschio e le ossa
la nave è pronta ad abbordare
ogni nemico con abile mossa.
II
Capitan Losco rasenta la costa
quand’ecco avvista una nave corsara:
prende la mira, l’aggiusta, si apposta,
punta il cannone, carica e spara.
III
Pirata Graffio, con l’occhio buono
(poiché sull’altro porta una benda)
vede la palla e sente anche il tuono,
un’esplosione a dir poco tremenda!
IV
Capitan Losco tutto contento
pensando già ad un ricco bottino
alzale vele e sorride al vento
fregando la mano contro l’uncino.
V
Pirata Graffio allarga le braccia:
non si può nulla contro la sorte!
Si aggiusta il cappello e prepara una faccia
come se andasse incontro alla morte.
VI
“Orsù, ribaldo, consegna il tesoro!”
ordina il Losco un poco alla spiccia.
“Consegnami subito il carico d’oro
perchè altrimenti riaccendo la miccia!”
VII
A questo punto il vecchio Pirata
a cui il baffo tremola per l’emozione
non può trattenere una grassa risata
che scoppia come un secondo cannone.
VIII
“Che avrà mai quello da sghignazzare?”
si chiede il Losco restando interdetto,
accosta il vascello per attraccare
e balza oltre il suo parapetto.
IX
Capitan Losco va all’arrembaggio
con aria spavalda spalanca il forziere
ma tra le risa dell’equipaggio
sapete cosa gli tocca vedere?
X
Altro che ori e denari sonanti!
Altro che pietre preziose e diamanti!
Dentro al baule brillano ghiotti
centotré chili di fagioli borlotti!
XI
Capitan Losco, che adora i fagioli
cotti col lardo ma anche da soli
non prova rabbia, né ira, ma FAME
e ordina subito di farne un tegame.
XII
E poiché in fondo è un buon Capitano
e non disprezza i pirati alla mano
propone al Graffio e alla sua truppa
di unirsi a lui per mangiare la zuppa.
XIII
Così finisce la strana battaglia,
con un filino di olio d’oliva
su ogni piatto di quella marmaglia
perfino del mozzo giù nella stiva.
(Il mare in una rima, Mondadori, Milano 2000)
Christian Morgenstern
Le papere mettono i pattini
Le papere mettono i pattini
per andar su lastre ghiacciate.
Ma dove li han presi quei pattini
se ricche non sono mai state?
Dov’è che li hanno trovati?
Li ha fatti un fabbro, un esperto!
E poi glieli ha regalati
in cambio di un paperoconcerto.
La tartartaruga
“Mille anni giù compiuti
ed invecchio un po’ ogni giorno.
Teobaldo re dei Goti
mi teneva in gran riguardo.
Molti fatti son passati,
ma per nulla li rammento;
ora grazie alle mie doti
puoi vedermi a pagamento.
Non so l’aspetto della morte
né la pena del moribondo:
io sono la tarta, io sono la tarta,
io sono la tartartaruga di mondo”.
(Il grande Lalulà, Edizioni C’era una volta, Pordenone 1992)
Pinin Carpi
Primo balletto
Pippo il gatto di Precotto
ghiotto, matto e mangiatutto,
ogni sera di soppiatto
si beveva a bicchierate
tutto il latte della botte.
Stava poi tutta la notte
sul muretto col bassotto,
la cagnetta e lo scimmiotto,
col galletto e la marmotta,
lo scoiattolo e il capretto
a contar barzellette,
a cantare canzonette,
a ballare come un matto.
Simonetta la sua gatta
era sempre senza latte
e ogni sera se ne andava
stanca, pallida e soave
a sfogarsi su in soffitta
e piangeva desolata,
zitta, afflitta, derelitta,
affamata e sconsolata,
poveretta quella gatta.
Poi guardava sul muretto
e vedeva quel gruppetto
che cantava, che ballava,
che rideva, e lei soffiava
miagolando di disdetta,
poveretta Simonetta.
Secondo balletto
Una volta il gatto Pippo
per dispetto zitto zitto
quatto quatto saltò in letto
con le scarpe, col cappotto,
coi calzoni e col berretto,
con la giacca e la cravatta
e danzò un folle balletto
saltellando da folletto.
E ballando portò piatti,
piatti e piatti di prosciutto,
di salmone e di pancetta,
poi zuppiere di risotto,
poi pignatte di spaghetti,
padellate di filetti,
di patate, poi marmitte
d’oche arrosto coi funghetti,
vassoiate di ricotta,
di fontina, di caciotta
e poi ceste e ceste tutte
zeppe a grappoli di frutta,
uva, fichi, mele, uvette,
noci, pere e un gran fagotto
traboccante di biscotti,
di bigné e di gianduiotti
e li sparse dappertutto,
piatti, pentole, pignatte
sparpagliati sopra il letto
dove mise anche una botte
di buon latte, e su quel letto,
continuando il ballo matto,
bevve e bevve latte e litri.
Così fece un gran banchetto
sbriciolando pane e fette,
sbrodolando sughi e latte
senza mettere il balletto.
Era notte e Simonetta
corse su per la scaletta
disperata e derelitta
fin là su nella soffitta.
Miagolava urli e strilli,
lacrimava con zampilli,
singhiozzava dal dispetto
perchè aveva il cuore infranto
e spruzzava in aria il pianto
che bagnava travi e tetto,
poverina poveretta
la micina Simonetta.
(C’è gatto e gatto, Einaudi, Torino 1988)
Mario Lodi
La mano
La mia mano ha cinque dita
e racconta la sua vita.
Dice il pollice,
dito ciccione:
“Io sono il padrone.
Senza di me
non infila l’ago
nemmeno il re.
E dai piccini
sono succhiato
come un gelato”.
Subito l’indice
si alza e dice:
“Io insegno la strada
al turista e al ciclista
e suono il campanello
alla porta del bidello,
alla casa del dottore,
al portone del castello.
Suono suono il campanello”.
Il medio allora dice:
“Io tengo il ditale
alla sartina
che fa la vestina
ticchete ticchete ta
ago che viene
ago che va
ticchete ticchete
ticchete ta”.
Zitti, l’anulare
sta per parlare:
“Io ho poca voglia
di lavorare
ma sono il più bello
perchè ho l’anello.
Così ornato
sono da tutti
molto ammirato”.
Alla fine
parla il più piccino
che si chiama mignolino:
“Nessuno
è più piccolo di me.
Ma se suono
il violino
scivolo sulla corda
come un ballerino.
Però…
voglio dire la verità:
la sinfonia
da solo
suonare non potrei
senza i fratelli miei”.
(Il soldatino del pim pum pà, Einaudi, Torino 1974)
Lina Schwarz
Cantilene
I
Gallo galletto
chicchirichì.
Non ve l’ho detto
che spunta il dì?
Gallo galletto,
alto è già il dì.
Giù da quel letto!
Chicchirichì.
II
Bolli, bolli, pentolino,
fa’ la pappa al mio bambino;
la rimescola la mamma
mentre il bimbo fa la nanna.
Fa’ la nanna, gioia mia,
o la pappa scappa via.
III
Stella stellina,
la notte s’avvicina,
la fiamma traballa,
la mucca è nella stalla,
la mucca e il vitello,
la pecora e l’agnello,
la chioccia e ‘l pulcino,
ognuno ha il suo bambino,
ognuno ha la sua mamma,
e tutti fan la nanna.
IV
Lumaca lumachina,
non correr, poverina!
“Io corro quanto posso,
ma ci ho la casa addosso!
E poi chi va pian piano
va sano e va lontano.”
V
Guarda guarda un can che scappa
che ha portato via la pappa,
via la pappa al mio bambino
per portarla al cagnolino;
cagnolin tutto contento
se la mangia in un momento,
se la mangia e fa bù bù…
e la pappa non c’è più.
VI
Cavallino, trotta trotta,
che ti salto sulla groppa,
trotta trotta in Gran Bretagna
a pigliar il pan di Spagna,
trotta trotta in Delfinato
a pigliare il pan pepato,
trotta trotta e torna qui
che c’è il pan di tutti i dì.
(Ancora… e poi basta!, Mursia, Milano 1988)
Franco Fortini
I mesi per i bambini
Lucida Aprile limpidi cristalli,
Maggio mena ragazze pei viali,.
Giugno spicca gerani ai davanzali,
contempla Luglio il sole e i grani gialli.
Dorme Agosto e non ode temporali
crescere sulle stoppie delle valli,
nel crepuscolo viola i bei cavalli
bagna Settembre all’acque fluviali.
Ottobre succia l’uva lungo il fosso,
prega Novembre a lume di candela,
e Dicembre si soffia il naso rosso.
Gennaio è morto e sottoterra gela.
Smilzo Febbraio serra i panni addosso,
e Marzo pescatore alza la vela.
(Poesia e errore, Mondadori, Milano 1969)
Il bambino che gioca
Il bambino smise di giocare
e parlò al vecchio come un amico.
Il vecchio lo udiva raccontare
come una favola la sua vita.
Gli si facevano sicure e chiare
cose che mai aveva capite.
Prima lo prese paura poi calma.
Il bambino seguitava a parlare.
(Questo muro, Mondadori, Milano 1973)
Miroslav Vàlek
La macchina invisibile, l’albero visibile
Tutto è cominciato così: la macchina visibile
ha sbattuto contro un albero invisibile.
Succede ogni tanto.
Dipende a chi, dove e quando.
La macchina visibile,
legata con la corda visibile,
sta all’ospedale
per un sinistro accidentale.
Assistenti con orrore in faccia,
pazienti, pediatri,
portinai e psichiatri
accorsero per vedere
che cosa di incredibile
ha quella macchina ben visibile.
Dà i numeri,
parla a vanvera:
ché ha l’infiammazione dei pneumatici,
ché ha i dolori reumatici,
ché ha il tic su un occhio,
ché ha il malocchio e le coliche.
– Non andare in giro per le cliniche,
niente gelato, né la pastina,
tre volte al giorno 20 gocce di benzina.
Quanto sollievo per la macchina, sta da festa!
Giorno – notte se lo inculca nella testa:
– Non andare in giro per le gelaterie,
non mangiare le cliniche come lo spuntino,
tre volte al giorno 20 gocce
di bianchetto – cancellino.
… di cancellino? Urrrà!
È riuscita quella cura!
La macchina invisibile! Cosa mai vista!
Ne parla ogni giornale, ogni rivista.
La macchina invisibile gira dappertutto,
la macchina invisibile riesce a fare tutto,
la macchina invisibile vince il concorso
– nessun incidente durante il percorso.
La macchina fantomatica, l’eroe senza la spada.
Alla macchina invisibile non basta più la strada.
La macchina invisibile fa paura ai pedoni,
alle mamme
alle mamme delle mamme
anche ai nonni.
– Sarebbe meglio salire in carrozza, quel vecchio veicolo.
La macchina invisibile è lo scandalo dello secolo.
Però:
la macchina invisibile – acqua in bocca –
porta i bimbi piccoli gratis
e quei più grandi per un gelato all’albicocca.
Fa il trasporto ogni giorno,
sempre disponibile.
E chi sale, senti questa:
diventa invisibile.
Nelle scuole invisibile
c’è un ronzio come negli alveari.
Nei quaderni invisibili
i compiti invisibili.
Introvabili i sussidiari.
Il preside visibile in ufficio
le alici marinate
butta giù per la gola.
E alunni invisibili
invisibilmente
marinano la scuola.
Appena apre il negozio
entrano in tanti,
comprano la cioccolata visibile
con invisibili contanti.
I bambini invisibili portano il mondo alla rovina.
I bambini invisibili non si lavano di mattina.
I bambini invisibili arrivano tardi a casa per mangiare.
Che modi terribili! Cosa si può fare?
Si consultarono i genitori,
si consultarono tutti gli adulti.
Si consultarono insieme
o da soli
– e come finirono i consulti?
Non conclusero niente, direi.
Conclusero dandosi del Lei.
Alla fine il preside, in un bistro,
si consultò col ministro:
– Vada come vada,
alla macchina bisogna sbarrare la strada
con un albero visibile.
L’esito fu chiaro, attendibile.
La macchina?
L’hanno messa nell’autorimessa.
O meglio: nell’officina.
E la fine di questa storia si avvicina:
il resto fu invisibile.
Cammello
Entrava un cammello in osteria
e ripeteva con pedanteria:
– Mi scusi, vorrei un po’ d’ acqua nel cestello,
ho una sete da cammello.
L’oste gli dice:
– Succede anche
a mio fratello!
Vuole l’acqua solo da bere
o fa la scorta sotto il mantello?
Quel cammello era di un maneggio,
ci portava un principino al passeggio.
Non importa se non era esperto!
La sabbia del circo credeva il deserto.
E siccome nel deserto
il cammello è aperto,
non ha peli sulla lingua.
Si permette la stravaganza
e dice con noncuranza:
– Oggi faccio il pieno. E punto.
Un semplice riassunto:
qui, davanti, una botte
e due o tre nella gobba dietro.
L’oste pensa, va un po’ indietro:
– Vuole mica farsi la gobba?
Pesa troppo tutta ‘sta roba!
– Non faccio a botte per una botte
o per un tinello.
L’acqua è la sorte di un cammello.
L’oste fa tutto in tempo breve.
Il cammello s’inchina, come si deve
e se ne va in tutta la sua bellezza.
Il mondo gli sembra una camèlia
rosa e chiara. Una dolcezza.
(traduzione di Darina Šestáková e Giacomo Vit)
Elio Pecora
L’albergo delle fiabe
Di notte, quando dormono i bambini,
tutti, ma proprio tutti i personaggi
delle fiabe più amate se ne vanno
in uno strano albergo sulle nubi.
E c’è chi si riposa dalle tante
e tante prove appena superate,
con l’Orco s’intrattengono le Fate,
Biancaneve sorride alla Matrigna,
il Lupo russa e mentre russa ghigna,
Cenerentola lustra la scarpetta,
Pelle d’Asino aspetta
il Gatto che si sfila gli stivali,
cerca le sue pietruzze Pollicino
nel fondo del giardino,
Alice fa le smorfie nello specchio,
Pinocchio riempie un secchio
di bugie tutte nuove,
e c’è chi in quella folla così varia
si ripete la parte
che affronterà con arte
chiamato da un bambino
nella sua stanza, al sole del mattino.
Girotondo
Girotondo, girotondo,
se tu giri intorno al mondo
puoi affacciarti sulle cime
di montagne e di colline,
vedi i laghi, guardi i mari,
golfi, porti, spiagge, fari,
c’è una donna su un terrazzo,
fra le nubi passa un razzo,
la campagna è un gran tappeto
colorato, c’è un vigneto
e nel centro una torretta,
sopra i tetti una civetta,
strade, piazze, slarghi, ponti,
cieli aperti ed orizzonti
rossi, blu, viola, arancio,
c’è la luna appesa a un gancio,
nell’oceano profondo
anche là si gira in tondo.
Giri tu e gira la Terra,
mentre è in pace e quando è in guerra,
giri e intanto gira tutto:
Sole e stelle, bello e brutto.
Chi sa dove c’è chi tira
una leva, e tutto gira.
(L’albergo delle fiabe, Orecchio acerbo ed, Roma 2007)
Corinne Albaut
Arlecchino
Ecco a voi un burattino
che ama assai fare prodezze.
Ha un vestito tutto pezze,
verdi, blu, rosso rubino.
Si esibisce in un teatrino,
dice un sacco di sciocchezze.
Dopo molte capriole
ogni muscolo gli duole
ma se vede un bel bambino
svelto, svelto fa un inchino.
(Filastrocche di tutti i colori, Motta, Milano 2000)
L’ombelico
Tocca qui, sul mio pancino:
bottone o sassolino?
Vermetto rosa attorcigliato
o conchiglia che il mare ha portato?
C’era qui una stella filante
per me davvero molto importante.
Dentro la mamma sono cresciuto
grazie a ciò che da lì ho ricevuto.
Ma appena sono nato,
la stella filante hanno tagliato.
E ora cosa resta?
Un ombelico per fare festa.
Ghiri-ghiri.
(Filastrocche dalla testa ai piedi, Motta, Milano 2000)
Le monete da sgranocchiare
Stanotte il mio dente è sparito,
da sotto il cuscino è fuggito.
Un topolino se l’è portato via
ed ha fatto una magia.
Al suo posto ha lasciato un tesoro,
tante monete che sembrano d’oro.
Non vere monete per pagare,
solo monete da sgranocchiare,
tutte dolcissime monete matte
di cioccolato, di quello al latte.
(Filastrocche di cioccolato, Motta, Milano 1998)
Sophie Arnould
Il rospo e il girino
Un vecchio grosso rospo
seduto sopra una foglia
cantava una sera d’agosto
da far passare la voglia.
A un piccolo girino
che passava di lì per caso
quel terribile concertino
apparve delizioso.
E ormai da quella volta
anche il piccolo girino
canta con voce sciolta
che sembra un mandolino.
Più forte, non si sente!
gli dice il vecchio rospo,
se vuoi essere un cantante
devi avere la voce a posto!
Un pulcino piccolo piccolo
Buongiorno
pulcino,
buongiorno
piccino,
ora esci dal guscio
ti devi vestire,
sei tutto arruffato
ti dovrai pettinare.
Pulcino
piccino,
qui fuori dall’uovo
c’è un mondo tutto nuovo:
e presto dovrai imparare
a ridere e scherzare.
(101 filastrocche e raccontini di campagna, Einaudi, Torino 2001)
Si torna a scuola
Marianna
si mette una gonna,
si mette un maglione,
si infila i calzini
e fa colazione
con fette biscottate e marmellata
per cominciare bene la giornata.
Si avvia di buon passo
e col cuore in gola,
perché stamattina
comincia la scuola.
Marianna,
nella sua cartella
ha messo i pastelli,
l’astuccio, i quaderni,
i libri ed i righelli,
e aggiunge anche uno spuntino
per la merenda di metà mattino.
Marianna
Sulla porta
l’accoglie la bidella:
-Svelta Marianna!
Suona la campanella-.
(Storie per tutte le stagioni, Einaudi, Torino 2002)
Leonardo Sinisgalli
Il sole e la luna
Stretti sui gradini dietro le porte
i bambini all’alba sono i primi
a prendere il sole della strada
in discesa.
Al crepuscolo
sulle stesse pietre
aspettano la luna.
(Dimenticatoio, Mondadori, Milano 1978)
Attilio Bertolucci
I bambini dopo scuole vengono mandati per viole
Ci vogliono molte viole
raccolte con la pazienza
che il bambino nel fondo
dell’essere spontaneamente
quando è il suo tempo coglie
segreta come la viola
che stava sotto le foglie.
Ci vogliono molte viole
per farne un mazzetto odoroso
e non ha la campagna
di questa stagione altri fiori
da portare a quei morti
che nel bambino chinato
rinascono, nei suoi gesti assorti.
(In un tempo incerto, Sansoni, Firenze 1955)
Elsa Morante
A una bambina
Sembrano i tuoi capelli a lustra piuma
d’un nero anatretto. Gli occhi
simili a foglie screziate. Semi d’oro tu hai
sulle guance: i tuoi pallori
aman l’ombra. I lobi forati
(quasi confitto vi avesse il suo pungiglione l’ape)
son rossi come il papavero
e nudi. Vana trafittura!
Tu non possiedi come le altre i ciondoli
né la croce: non avesti comare
per adornarti al fonte battesimale.
La vanitosa tua madre ebbe cura
di forarti gli orecchi, ma non ebbe
della tua sorte pensiero. Tutti dicono:
“Donna senz’ori non si sposa”
e “Nata non battezzata, è peggio che morta”.
Ma tu solinga stai, dei curiosi
nulla t’importa.
Cerco un pretesto e ti chiedo: “Come ti chiami?”
Non rispondi. “Non sai
parlare? Sei muta?”
Adesso
mi osservi, diffidente,
e poi ritorni ai tuoi giochi scontrosi, presso
la vasca iridescente.
(Alibi, Longanesi, Milano 1958)
Shel Silverstein
Il furbacchione
Papà m’ha dato un biglietto da mille,
ché furbo come me non c’è nessuno:
infatti l’ho cambiato con due pezzi da duecento
perchè due è più di uno.
Poi ho preso le due duecento lire
e le ho scambiate con Attilio Bue
che me ne ha dato tre da cento, lo scemo.
Non sa che tre è più di due.
Poi ho incontrato il vecchio cieco Aulenti
che siccome non ci vede un granché
mi ha dato quattro pezzi da cinquanta.
E quattro è più di tre!
Poi ho portato le monete a Gianni Locco
quello delle granaglie, quello matto,
che me n’ha date cinque da dieci.
E cinque è più di quattro.
Poi ho raccontato tutto al mio papà,
e lui ha cominciato a balbettare
poi, paonazzo e muto, ha scosso il capo,
perchè era troppo fiero per parlare!
Io e il mio gigante
Ho un amico che è un gigante
guarda tu stesso se non ci credi.
È largo a alto come una montagna,
gli arrivo solo alle dita dei piedi, vedi?
solo alle dita dei piedi.
Tutti i giorni chiacchieriamo insieme
verso sera quando il sole s’incupisce;
e anche se il suo orecchio è troppo lontano,
sono certa che lui capisce, capisci?
Lui mi capisce.
Perchè usiamo il codice “gratta e batti”,
e cioè facciamo così:
gli gratto il piede… una volta sta per “Ciao”.
Due volte vuol dire: “Come ti va?”
E tre volte: “Dici che pioverà?”
Quattro volte: “Parli troppo in fretta”.
Cinque: “Ti gratterò una barzelletta”.
Sei vuol dire: “Devo andare, ciao”, “Ciao”.
Sei vuol dire: “Ciao”.
Lui mi risponde battendo il suo alluce.
Una volta vuol dire: “Ciao, amica!”
Due volte: “È bello sentirti grattare!”
Tre volte sta per: “Mi sento un po’ solo
con la testa alla cima del cielo”.
Quattro: “Oggi un’aquila m’ha sorriso”.
Cinque: “Ahi, ho picchiato di nuovo la testa
contro la luna”.
Sei volte: “Ahimè”. Sette: “Buona fortuna”.
Otto volte: “Torna, torna presto, presto, presto”.
Otto volte: “Torna presto”.
Poi ogni tanto lo gratto mille volte
allora batte l’alluce frenetico
e scuote il cielo con una risata
e vuol dire che gli faccio il solletico!
(Strada con uscita, Salani Editore, Firenze 1994)
Roald Dahl
Il coccodrillo
Nessuna bestia è più da disprezzare
che Crocco il Coccodrillo, non vi pare?
Il sabato, si mangia a bocconcini
sei innocenti e succosi bambini:
se sono maschi e femmine è contento
se l ingoia tutti in un momento.
Ma prima, perché siano più piccanti
li spalma di mostarda tutti quanti:
non proprio tutti, perché la bambine,
a causa di capelli e di treccine,
son emglio unte con il caramello:
e lui le tinge bene col pennello.
Ah, quanto sono buoni e delicati
le dolci bimbe ed i bimbi salati!
Questo, almeno, è il suo convincimento,
poiché ne ha mangiati più di cento.
Ecco, ora basta: è tardi, fai la nanna,
adesso dormi, e fà sogni di panna…
Ssst! Senti… per le scale c’è qualcuno:
eppure in casa non c’era nessuno…
Prendi il fucile, portamelo qui,
chiudi la porta, presto: no, stà li!
Oh, mio Dio, guarda, è lui! Che brutta pelle,
e guarda i denti, lucide lamelle!
Guarda la bocca, che buco tremendo…
è lui, è Crocco, il Coccodrillo orrendo!
Il porcospino
Sabato è una gran bella giornata
perché la mancia, il sabato, mi è data
(ma me la sganciano, naturalmente,
se sono stata gentile e obbediente…).
Oggi ai miei genitori è stato detto
che sono stata come un angioletto
e il mio papi, dopo colazione
mi ha dato cinquemila lire buone.
Fulmineamente son fuggita via,
e giù di corsa alla pasticceria,
a comperar la cara cioccolata
e crema di lampone incartocciata!
C’è un posticino segreto nel bosco
che solo io frequento e conosco:
un luogo fresco, calmo e riparato,
perfetto per gustare il cioccolato.
Appena giunta là, io vidi di fretta
un’invitante e tonda montagnetta:
sembrava ben pulita ed accogliente,
adatta alla seduta, seducente…
“Qui io me ne starò sola e beata
fino alla fine della scorpacciata!”
così io dissi a me stessa sedendo:
ma saltai su con un urlo tremendo.
Ci credereste? Col mio sederino
mi ero seduta su un gran Porcospino!
Il mio didietro era già rovente
giacché un centinaio incandescente
di punte aguzze come ferro, o spine,
spuntavano dalle mie mutandine!
Corsi gridando a casa: “Aiuto, mamma!
levami dal popò tutta sta fiamma!”.
Mia madre, che non perde la freddezza,
studiò la cosa e disse con lentezza:
“Credo che non farò personalmente
l’operazione: occorre un competente:
e certo il signor Caria è l’uomo adatto
a risolvere al meglio questo fatto…”.
“No, no, non il dentista!” io gridai.
“toglimi tu le spine, mamma, dai!”
e piansi, e pregai più di una volta:
ma quando mai c’è un grande che ti ascolta?
“Solo il dentista”, disse, “è competente,
giacché lui strappa ininterrottamente”.
E in fretta mi portarono in città
e adesso, dunque, io mi trovo qua,
sopra questa poltrona maledetta,
e due infermiere mi tengon ostretta…
Il leone
Oh, tanta, rossa e tenera carne:
sempre il Leone vorrebbe mangiarne!
“Qual’è” gli chiedi, “la carne più buona?”
“Non è l’arrosto d’agnello!” lui tuona.
“Prosciutto al forno o vacca stufata?
Le costolette, o la carne tritata?
Salsiccia? Pollo? Forse il montone?”
“Non sono questi!” ruggisce il Leone.
“Ma dimmi, allora, cos’è che ti piace?
Forse una grossa bistecca alla brace?
Forse, Leone, potresti gustare
coniglio, o lepre: non vuoi provare?”
Scuote il testone il Leone ridendo,
poi vien vicino e ti dice, tremendo:
“Sai quale carne mi piace di più?
Non le bistecche o l’arrosto, ma tu!”
La vacca
Ora ascoltate, voglio raccontare
di una mucca assai particolare:
Miss Dolcelatte, così si chiamava,
e nei sui primi mesi si mostrava
una vitella in tutto normale.
Aveva invece una cosa speciale:
giacché sui fianchi potemmo notare
una doppia sporgenza irregolare
che dopo poco tempo son cresciute
e in due o tre mesi sono divenute
(mentre io le guardavo con sgomento)
un paio d’ali fatte d’oro e d’argento;
ve lo giuro, vi do la mia parola:
divenne alata: una mucca che vola!
Con i miei stessi occhi la vedevo:
eppure, ancora, io non ci credevo!
“Oh bella Dolcelatte, ma sei tu?”
battè le ali e se ne andò su:
saliva in cielo con tale leggerezza,
frusciando come una libera brezza,
scendendo svelta, facendo picchiate,
giri mortali e improvvise impennate!
Naturalmente, in un attimo fu
vista e ripresa dal vivo in Tivù.
Vennero a poi persone a milioni
ad ammirare le sue evoluzioni.
E poi, guardando in su tutte quante:
“Guarda! è davvero una mucca volante!”.
E si sentivano mille risate,
applausi lieti, parole garbate:
c’era soltanto, la sotto, un tipaccio
che proveniva da qualche postaccio,
e a bocca larga, in mezzo alla gente,
prese a gridare con voce furente:
“Oh matta vacca! Lassù, ascolta bene,
sei pazza da legare con catene!”.
Dolcelatte sentì quelle parole
e disse: “Ma chi è quello? Che vuole?
Chi è quel mostriciattolo straniero?”.
Poi venne giù a volo di sparviero
e gridando: “Gran grullo, prendi questa!”
lo bombardò di cacca sulla testa.
(Sporche Bestie, Salani Editore, Firenze 1992)