Un altro stupendo, stupendo, stupendo libro che amo moltissimo è La sposa perfetta di Luigi Aliprandi (Marsilio 1998). Libro che a differenza del titolo non parla di un quiete familiare ma di una separazione, del suo dolore e della bellezza della donna che se ne è andata. Libro privo di disperazione, tenue, ma vivo. Denso di domande perchè un amore finito è sempre pieno di domande. E di silenzi. Con qualche accenno di gelosia che restituisce la genuinità di questo sentimento per l’autore purtroppo ancora presente.
Libro che affonda nella grammatica del niente, che rinnega ironico il suo stesso essere poesia d’amore (Sta a te decidere, adesso, se questa sia o non sia una poesia d’amore), che ancora canta l’amata e il suo corpo (e tu / nostra signora dai piedini squisiti), che anela la sua quotidianità (E cerca / di pensare (è la più alta delle filosofie) / a quello che normalmente pensi, al pane / da comprare o alle infinite casualità / del tuo apparire).
Un libro delicatissimo che si chiude con un auspicio che sa già d’essere fallimentare: e rendermi vita dentro la tua vita. Ma la perfezione resta perfezione anche nella distanza, e per questo Aliprandi riesce a dire da una rosa futura a un temporale / ritrovano i contorni del tuo viso o addirittura ti adoro / per ciò che sei e quella che eri / per ciò che sarai se tu già non fossi.
Tutto questo nonostante l’orrore del ritorno che non è, e un Quando pieghi il capo per baciare / e la tua lingua poi in altra bocca. Perchè su tutte le distanze, su tutti silenzi, i fallimenti e le colpe, resti solamente un cercami – c’era scritto, cercami / se mi vuoi bene…
Non guardo più gli annunci
tirati a lucido, arcigni nel gelo della sera. Da qui
(dal pensiero stesso) a una concerta
nonché provvidenziale soluzione ci corre,
niente a che vedere, si capisce
con gli insulsi affanni del mestiere
risate secche, riassunti di preghiere
ma un modo più basso, più leggero
quasi una tecnica della tenerezza
da pensarsi a sera o prima
del sonno, a uso e consumo
della tua bellezza.
Chiamata a dare conto dei tuoi sensi
alle quattro direzioni delle voci
hai ubbidito a una tua legge di natura
e senza tempo né troppa convinzione
hai accertato dove alloggiava il falso.
Avessi almeno l’innocenza
a riparare i miei atti più immortali
ti seguirei lungo la via di casa
o manderei missive macchiate di dolcezza
e alzeresti le spalle e il tuo presente
seguiterebbe il suo corso costante
ma se la bellezza si stacca dalla norma
dov’è la legge, e dove rinnegarla?
Ti precedi
fai due passi in più dell’ombra
dove sarai già eri
(così nella mia mente, a casa
poco prima di cena)
cronista del tuo silenzio, più in là
della tua stessa pena.
Volevi che sapessi il modo
e il tempo – avevi già previsto tutto
del racconto, solo un finale incerto
una sospensione, solo uno sbandamento del senso
era l’ostacolo non previsto, non atteso
ma ora
nel baratro di ciò che è stato
(un incantesimo che non conosce fine porta pena)
a quale sortilegio ti prepari
a quanta vita segui
mi domando.
Se è vero che necessita al ricordo
lo stile di una vita e la dimenticanza
tutto è perso in quest’ultimo ritardo
in questa atroce e secca riverenza
in questo opaco residuo dello strazio
e dentro, più dentro nella mente
resisti a questo globulo di spazio
come sei stata, così, figuralmente.
Cercavo in frammenti e ritagli
del sogno che viene a notte fonda
lo sguardo col quale scarti e tagli
il di più di bellezza che t’inonda
ma più ti sfuggiva questa scusa
ritorta contro te che te la squagli
dal tuo apparire, inappagata sonda
di tanta meraviglia che t’accusa
che io, testimone di sventura
(che resti attento o che mi confonda)
nel giorno risplendente alla rinfusa
trovavo il seme della mia paura,
paura di te, dell’ombra che ti muove
del tuo essere qui essendo altrove.
Unicamente vivi per te anzi, ti arrangi
solo questo davvero, questo soltanto
davvero più non ami, più non piangi
essendo tu l’amore, essendo il pianto.
Unicamente scrivo per me, per la mia paura
da quando l’esperienza mi assicura
come la tua bellezza sia la mia sventura.
E: «sarà vero poi?» mi chiedo
quando il sonno che tarda è apostasia
di ogni fede, speranza, di ogni credo
e tu in altre case, in altre braccia andata via.
Scrivo per lei, anche se non mi sente
per la sua vita e per chi se la prende
biografo di nulla, in una grammatica del niente.
Hai frequentato i luoghi
dove l’attimo è sempre quello prima
dove l’odore di pioggia lo scambieremmo
con tutta la nostra mitologia
dove la legge è segreta e il vangelo
riposa nei lenzuoli. Avessi tu – nel falso
teatro del reale – la parte dell’assenza
saresti la preferita fra le attrici
saresti scrittura inalterabile, non riproducibile.
Dove la rosa comincia la discesa
vi incontra le stazioni della rinuncia, della bellezza,
la musica della biancheria intima si converte
in odore di carne, in un patto consumato.
Niente ti uguaglia se non questi percorsi
che da una rosa futura a un temporale
ritrovano i contorni del tuo viso.
Resta dove sei
Non essere, ti prego, clandestina
o miliziana o santa o disertora
non essere, sii cara, in abito da sera
o nei capricci della nuova moda
e né in Africa o in Atlantide, non cercare
l’oro e la corona e non vendere
ciò che ti appartiene, cerca di essere (è il
compito più arduo, e te lo chiedo)
esattamente quella che sei, così distante
dal cielo e dalla terra, così compenetrata
in ciò che anche noi vediamo. E cerca
di pensare (è la più alta delle filosofie)
a quello che normalmente pensi, al pane
da comprare o alle infinite casualità
del tuo apparire. E sopratutto (te lo chiedo?)
resta dove sei così che io, a volte, possa
incontrarti, e sei mi vedi, sii buona, salutami.
P.S. Sta a te decidere, adesso, se questa sia o non sia una poesia d’amore.
Temuta stella in luce di speranza
di cui non reggo vertigine d’assenza
(e il con soccombe nella guerra al senza)
fatti presente e viva assaltami nel poco
di me tuo celebrante a questo fuoco
d’ardore terrestre e di parole, nell’alto dei tuoi cieli
mio labirinto che non nascondi e sveli.
Lo so, lo so, per te
non cambia molto, che sia presente
o manchi, non è questa, non è più
questa, lo so, la vera differenza…
ma chi, insetto o topo, nel fruscio
del sottobosco, si affida ai sentieri
e all’odore, ora per ora, ora
come allora sente, più caldo, più vivo
il fiato sul collo, sulla faccia, e niente
(davvero: niente!) più gli indica l’uscita.
Tu ora sarai in casa, avvinta
ai riti domestici o sottratta da essi
come spero, ti penso sul letto
attenta a disfare
uno stupore di vecchi e nuovi intrusi
con le mani sui fianchi e gli occhi
rossi, ti adoro
per ciò che sei e quella che eri
per ciò che sarai se tu già non fossi.
Non era per dispetto che taceva
questo lo so, non era quel silenzio
cruento che incolpavo, ma non si alleva
la vita più fiorente in quello strazio
che io ero, e on so chiederle perdono
del me stesso che non trovo, che non sono.
E poi la voce, come una sorpresa
attesa in un Natale di abbandoni
celesti, qui, su questa terra, arresa
alla sua bellezza, la voce come tuoni
di un temporale nel sogno dell’estate,
viva prigione, spaventi confinati, per pietà, restate.
Solo nel tempo che non ti comprende
potrei comprendere te
le rose sono stanche di essere guardate
né l’oroscopo che ho tratto da questa polvere
ti prevede, la stagione attesa
tarda ad arrivare, solo l’acqua mantiene le promesse.
In quest’ora bianca, prosciugata
dalla legge a danno dell’anima, appari
come ciò che si compie non avendo inizio.
Si perda traccia del primo pomeriggio
della porta che si apre, dei saluti educati
il linguaggio si perde in nessun luogo
ma non parlai abbastanza dolcemente
né ebbi la forza o la visione (e dire
che sapevo tutto, da sempre)
di affrontare l’orrore del ritorno.
Piccola elegia
Non sei più tu (scritto mille volte
e mille volte ancora, per spasimi e fogli
tra colpa e scelta fra strada
e dimora) non sei più tu, qui si conviene
al parlare chiaro, non è più il nome (non solo, il nome)
ma la sopravvivenza, eh, la sospinta vedovanza
o il secco segnale, la muta diceria o
qualcos’altro, la speranza che si spera.
Tutto qui.
Non ho poteri per ingannarti gli occhi.
Decidi di te stessa e tanto basta.
La gioia adesso, non si sottrae
ad una gerarchia minuta, precisa
puntuale alle scadenze. Tutto qui.
Sebbene mi basti.
E non si contano le assenze.
Che cosa diremo
se tutto ciò che doveva essere
giace inesplorato nel tempo, in certe stanze
troppo frequentate perchè la polvere si posi.
Altre stanze in altre case, altri riposi
e un’attenzione esagerata nello scuotere la cenere
fino a quando la nostra faccia fisserà il vuoto
dal fondo di un pomeriggio sconosciuto, «sarà…
sono tante le cose che trovano rifugio sulla schiena»
la tua schiena, tempio di prostrazione di naufragio
nelle cene a sera con cibi congelati, aspettando
che un solo attimo ricomponga un tessuto morente
tenuto in vita a forza con respiri d’affanno, inerte
l’anno che ti porta via, l’anno che segue ad altri anni
sospinti dalla tua bellezza
o dalla sua assenza, peggio
e lasciare in quelle stanze, abbandonate
le dimesse corone del coraggio.
Esulta le tue morti o vivile
distrattamente, spenta l’ultima candela
il buio invade gli orifizi, nessuno
resiste alle astuzie della sera.
Detto solo per farsi notare, per amplificare
il ritmo dei respiri, bastava un cenno
e se «il segreto si nasconde dietro il sospetto»
moriremo di paura, davvero.
La stanza è invasa di luce, il tavolo
scrolla le sue colpe, e tu
nostra signora dai piedini squisiti?
Non sappia la sinistra
Non è ancora arrivato – mi
dicevi, immaginando un mio dolore
tenue o scoramento.
Quanta felicità mi davi, invece
di rivederti ancora, nuovamente.
Aspetto come un gatto
il giorno che verrò a cercarti
e poi non c’eri o peggio
tutto chiuso. Peccato
la caccia è vana e il gatto ne è deluso.
Hai per cognome una città
del sud – da lì veniva gente
che per anni e giorni di paura
lottando nell’ellisse della storia
ha scolpito il sogno che ti raffigura.
La cosa che di te m’incanta
è il sorriso – lo trovi
strano? Troppo poco originale?
Se lo potessi vedere diresti…
chiedilo al tuo specchio
se ha occhi per parlare.
Da quale calendario sei arrivata
se la tela che mi ferma il sangue
ha spine di silenzio sulle labbra
e la rosa è impronunciabile
se non a gesti rotti dal silenzio.
Ora so che la realtà del possibile
non comprende nemmeno le sue unghie
che lei si taglia, a sera
stringendo i piedi in una morsa d’incenso.
Da quale calendario sei fuggita
ora che il tuo posto è vuoto ed è
pane di miseria la sola, unica portata.
Ci fu uno spavento nel caso che ti volle
scudi d’impazienza abbandonati
lasciati a chissà che nemico.
Tracce di te
nel bicchiere sporco, nel foglio lasciato in bianco
nella musica che viene di là, dalla cucina.
Lentamente, sui contorni del cerchio
la tua voce è bassa, la castità
delle pupille è assoluta.
Può il tuo corpo privarsi dell’ombra?
Può reggere una luce diversa da quella del cielo?
In forma di pausa
In me che non ho mai
dico mai provato alcuna invidia
in ogni parte della mia commedia
adesso è il maggio del furore
a governare e impallidire il cuore
dammi la sorte
di quella sigaretta, mio Dio!
E consumarmi alle sue labbra anch’io.
Filo di lana
Ogni tanto ritorna
più piccola più vera
conosce le ragioni del silenzio
e me ne parla, tra pieno e vuoto
di sera in sera, si fa maga folletto
strega rabdomante con la soave alchimia
del suo presente, oppure
ma questo solo a parole
vorrei vederla uscire
truccata magari per la festa
la tua piccola morale impersonale…
ma dimmi, che ci facevi in Boemia
nel 1940? Frantisek Halas scrisse in quell’anno
una poesia iniziandola con il verso «Era bella
sino all’incredibile» e solo ora so
che parlava di te, con altra voce
ti dico grazie e «ci sentiamo!»
è una specie di eufemismo
perdona Mademoiselle a chi ti scrive
quel senso di perdita attenuato
o, in mancanza d’altro, l’eccesso di lirismo.
Il nome, solo il nome resta
da ripetersi piano sulla scena
per invitarsi da soli alla tua festa
per mangiare da soli alla tua cena
il nome, solo questo ho nella testa
il nome che si nomina o la pena
che niente posso dirti, il vero
lo posso dire solo nel pensiero.
Mi hai lasciato antologie di piaghe
sacche grigie di veleno spento, mappe di lontananza
se questa accortezza divenisse cenere
ne avresti tu i segni sulle spalle, il ritorno
attenderebbe i passi di novembre.
Mi hai lasciato raffiche di pena
cucitura che cuce lo spavento, anima nera
che nutri le preghiere, in alberghi di pianto
hai fatto dell’assenza il tuo mestiere.
Le considerazioni esatte sulla distanza
non portano a niente, ogni ragione mutabile
ne avverte il peso vuoto, vacuo
sul finire del giorno. Hai scelto di abitare
il silenzio sospeso di un battito di ciglia
o dell’agitarsi nervoso delle mani, come se
la purezza non sopportasse infinite sottrazioni
ma se può dare un senso all’azione
la volontà corre il rischio di volere
solo se stessa, aiutandosi come può
con quel niente di saggezza che precede
ogni scontro, non potevo che fallire
ed è stata una strage.
Adesso alla distanza appare chiaro
e l’evidenza ha i suoi luoghi di luce
non potevo che fallire, è andata come è andata
ma quale stupendo fallimento tu, sei stata.
Mi chiedo se anche tu, disfatta dalla grazia
hai le notti lunghissime, da ospedale
se la mente inferma chiede la giustizia
alla luce del giorno che non sale
al tormento di non esser più se stessa
di sfinirsi in semine di sogno
sull’altare dell’aurora, nella messa
che il sole fa a celebrare il giorno.
Mi chiedo e mi rispondo che davvero
la mente gira in giostre d’impazienza
e di follia, come ci penso, è tutto questo nero
che acceca la ragione, e la speranza –
oh trofei dell’insonnia come vorrei mancare
alla vostra consegna, ma già non oso
non dico chiederlo, nemmeno immaginare
se la mia veglia è preghiera al tuo riposo
tenera veglia al santo tuo riposo.
Elaboro teorie sulla vita.
Il mio nome è fra i più rispettabili
in materia di vertigine.
Dispongo i fogli intorno
consulto libri, astri, vecchie ricette
le mie schede minacciano
la vastità del tavolo, prendo
appunti, cancello, riporto
tutto in bella copia, introduco
un ordine alfabetico, poi affatico
il tutto con note a fondo pagina
ecco, il lavoro procede, tutto
è in fila, ordinato, so tutto di te
non mi resta che rileggere (per
puro scrupolo) l’immenso labirinto
di fogli infinitamente bianchi
che contengono, in parte
la cifra del tuo silenzio.
La trasparenza non ha carezze, non dà
né riceve baci o abbracci, il cane
che abbaia in lontananza le è amico,
la precede una muraglia di ferite e
ruggine, quello che segue è la sua persona
fatta tradizione, fatta fede. Attraversa
questi posti, ogni tanto, non richiesta
né temuta, la paura – l’occhio non coglie
la parte di lei che s’è perduta. La mezzanotte
batte alle tempie come una sconosciuta.
Fra tutte le parole che ho letto
e ascoltato, ce n’è una (esemplare
e stupenda, in grafia celeste, nel senso del cielo)
che a ricordarla il niente è primavera
e la bocca ride: cercami – c’era scritto, inaspettatamente
arrivata alla mia soglia (e la gioia non si tiene)
cercami – c’era scritto, cercami
se mi vuoi bene…
Per amore di chi, per quale sguardo
offuscato e netto e improvviso, per chi
ornata la parola, cercavo una guida
nella morsa temuta delle suppliche?
Il mittente riferisce di promesse
irredimibili, sepolte nel futuro e
benché non si porti il profumo
che dopo il pasto, c’è bisogno che qualcuno cada,
faccia rotta, indichi la strada, il segno, la speranza
di chi cade sotto un grido inascoltato.
È beato chi comprende la debolezza.
Quando pieghi il capo per baciare
e la tua lingua poi in altra bocca
trova un altro modo di parlare
allora penso che è a me che tocca
in sorte ciò la cui scrittura
non prevede né scienza né lettura:
l’amerai nell’amore e lei soltanto
come l’urlo s’accoppia allo spavento.
Non ce la faccio proprio a render chiaro
l’amore che ti porto, vita mia
un’ombra resta a questo giorno amaro
cui seguita una notte di malinconia
di te, del tuo splendore fatto assenza
e prego e chiedo a Dio che me la dia
la chiave che schiuda in mia presenza
la porta della gioia tua infinita
gioia del corpo e gloria dell’essenza
e rendermi vita dentro la tua vita.
Se un senso c’è nell’assenza dell’amato risiede certamente nella possibilità che qualcuno scriva versi così!
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Si forse… ma quanto… quanto… quanto costa….
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Purtroppo ( o per fortuna?) la vita ci costa la vita
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