La musica è stata creata per chi non ha una casa, dato che di tutte le arti è la meno legata a un luogo… La pittura è l’arte degli stanziali che amano contemplare i luoghi natii… Dal canto suo la poesia si addice agli emigranti, a quegli sventurati sull’orlo di un precipizio, sospesi con il loro misero fagotto tra le generazioni, tra i continenti.
Con questa citazione da Tradimento (Adelphi 2007) dello stesso Adam Zagajewski di questo articolo, Krystyna Jaworska apre il suo piccolo saggio La poesia tra incanto e ironia messo come postfazione di Dalla vita degli oggetti (Adelphi 2012) del succitato Zagajewski. Un’introduzione adeguatissima a un autore sospeso tra esilio ed emigrazione sopratutto a livello di approccio con il mondo. Una fisica che diventa metafisica dell’essere estranei a un luogo, a un tempo, addirittura a se stessi. Il concetto di estraneità diventa nei versi attenzione alla geografia dei luoghi e delle persone, in una forma narrativa che per alcuni (così dice la Jaworska, poi confutando la tesi) è persino funzionale alla traduzione già alla sua nascita. Che la poesia di Zagajewski sia immediatamente fruibile con strumenti anche pochi è cosa certa. Lo spazio di una mitologia personale, o di un’intima simbologia, è ridotto veramente all’osso. Ma è anche vero che è poesia estremamente cerebrale, calibrata con volontà e fermezza. Si potrebbe quasi dire costruita a tavolino se non fosse che l’effetto è poi piacevole, poetico.
Notevolissimi alcuni versi che restano a memoria: Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta […] Le albe sono cieche come gattini […] Dio è il seme / di papavero più piccolo al mondo. / Scoppia di grandezza […] La poesia cresce sulla / contraddizione, ma non la ricopre […] Solo negli altri vi è salvezza […] Penserai / a qualcuno che non c’è più e a qualcuno / che vive con tale intensità che questa vita ai margini / si trasforma in amore […] Lontano, in alto, un piccolo aeroplano / gioca come un delfino […] Adoro osservare il volto di mia moglie.
Poi c’è un particolare che mi ha molto incuriosito, e che spero di riprendere con maggiore calma. Leggendo La notte di Zagajewski ho sentito (ma forse solo effetto della traduzione?) echi di un altro autore che amo tantissimo, Ferruccio Benzoni. Può essere una lettura errata la mia, ma voglio comunque porre i due testi all’attenzione del lettore:
La notte. Poiché sei solo morto, / senza dubbio ci ritroveremo. / Avrai sempre nove anni, / come quando ti vidi l’ultima volta, / su in montagna. / Era agosto, un tardo pomeriggio / maturo e così diafano / che le foglie dei ciliegi erano / immobili e i fili d’erba silenziosi. / Le more già nere si scioglievano / in bocca. Nel loro dolce succo si celava / il ricordo della primavera e dell’estate. / Di tempeste, di albe e del volo dell’allodola. / Correvi davanti a noi ridendo / e sapevi che dietro ti seguiva la nostra tenerezza, / leggera come il respiro dei dormienti. / D’un tratto sparisti tra le piante, / nell’ombra degli abeti. Era già sera / e freddo, all’ombra verde degli abeti. / E noi ancora illuminati dai raggi / del sole che calava chiedevamo / dov’eri, senza angoscia. Così vicini, / separati soltanto dai fischi degli uccelli assonnati / e dalle tende dei rami intrecciati. / La notte saliva, lentamente. / Passando per tunnel e corridoi, / la notte attraversava il giorno. (Zagajewski)
Notizia d’addio. – “Ferruccio, Ferruccio”… / Dal tuo profilo spigoloso / di grazia il pigolio. / odoravi d’ascelle. Di bucce / di mele aspre, lisce. / Assonnati gli occhi in prestito / un solo giorno alla terra. / – “Ferruccio, Ferruccio”… / Aspettavi tra i binari ridendo. / Ridendo fuggivi in una folata / lumescente di liquidi vetri. / (Sia pure su un treno spettrale, sparisti). / E io (io) non così vecchio, roso / dallo sconforto, dall’ebbrezza di / un giorno rivederti. / Oltre la porta, nella sera / strofinata di fiammiferi / il tempo franava aizzando / un etilismo di rimpianti. (Benzoni)
La sconfitta
Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta,
le amicizie si fanno più profonde,
l’amore solleva attento il capo.
Perfino le cose diventano pure.
I rondoni danzano nell’aria,
a loro agio nell’abisso.
Tremano le foglie dei pioppi,
solo il vento è immoto.
Le sagome cupe dei nemici si stagliano
sullo sfondo chiaro della speranza. Cresce
il coraggio. Loro, diciamo parlando di loro, noi, di noi,
tu, di me. Il tè amaro ha il sapore
di profezie bibliche. Purché
non ci sorprenda la vittoria.
La bandiera
La mattina mi sveglio e cerco di appurare
con l’aiuto di un binocolo da teatro
quale bandiera sventoli sulla mia città
nera, bianca o grigia come il terrore,
se la mia città è già stata conquistata
o ancora si difende, se implora
la clemenza dei vincitori oppure
porta il lutto per alcuni secondi
di oblio, o forse io stesso sono
la bandiera solo che non so
vederla, così come non vediamo
il nostro cuore.
Il viandante
Entro in sala d’aspetto alla stazione,
manca l’aria.
In tasca ho un libro,
poesie altrui, tracce d’ispirazione.
Accanto, sulle panche, due vagabondi e un ubriaco
(oppure due ubriachi e un vagabondo).
Al lato opposto della sala, lo sguardo volto altrove,
in alto, verso l’Italia e il cielo,
siede un’elegante coppia anziana.
Fummo sempre divisi. L’umanità, i popoli,
le sale d’aspetto.
Mi fermo un attimo, incerto a quale sofferenza unirmi.
Infine mi siedo al centro,
leggo. Sono solo, ma non mi sento tale.
Un viandante che non viaggia.
Svanisce
la visione. Montagne di respiri, soffocanti
pianure. La divisione perdura.
Ode alla morbidezza
Le albe sono cieche come gattini.
Fiduciose crescono le unghie, ancora ignare
di ciò che toccheranno. Morbidi
sono i sogni, la tenerezza incombe
come nebbia su noi, come la campana di Sigismondo,
prima che cessasse di battere.
Kierkegaard su Hegel
Kierkegaard diceva di Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l’intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e questi stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un’angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia. Nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.
Vitalizio
Sono ormai cessate quelle sofferenze.
Tace il pianto. In un vecchio album
vedi il volto di un bambino ebreo
a un quarto d’ora dalla morte.
Hai gli occhi asciutti. Scaldi l’acqua
per il tè, mangi una mela. Vivrai.
Ode alla molteplicità
Non capisco tutto e mi rallegro
persino che il mondo come un oceano
inquieto superi la mia capacità
di comprendere il senso dell’acqua, della pioggia,
dei bagni nello Stagno del Fornaio, vicino
al confine boemo-tedesco, nel settembre
del 1980; dettaglio questo senza particolare
significato, un profondo stagno germanico.
Che l’Ego in crisi di ossigeno
respiri tranquillo, un nuotatore taglia la linea
del meridiano, è sera, le civette si svegliano
dal sonno diurno, in lontananza
rombano pigramente le auto. Chi per una volta
ha sfiorato la filosofia è perduto,
non lo salverà la poesia, resterà
sempre, rimanenza
incalcolabile, la nostalgia. Chi per una volta ha conosciuto
la folle corsa della poesia più non proverà
la quiete petrosa della prosa familiare
dove ogni capitolo è nido
di una generazione. Chi per una volta è vissuto non
dimenticherà la delizia mutevole delle
stagioni, persino le bardane gli appariranno in
sogno e le ortiche e i ragni, solo
un poco più brutti delle rondini. Chi per una volta
ha incontrato l’ironia sbufferà ridendo
durante la lezione del profeta, chi per una volta
ha pregato non solo con le labbra asciutte
ricorderà la presenza di una strana eco
rimbalzata da una parete. Chi per una volta ha
taciuto non vorrà parlare durante
il dessert, chi è stato ustionato dallo shock
dell’amore farà ritorno ai libri con volto mutato.
Rimani dritta, anima singola, di fronte
all’eccesso. Due occhi, due mani,
dieci dita ingegnose e
un solo Ego, un quarto d’arancia,
la più giovane delle sorelle. Il piacere
dell’udito no guasta il piacere
della vista, ma l’ebbrezza della libertà distrugge
la pace degli altri sensi quieti.
La pace, un nulla spesso, pieno di dolce
succo come una pera a settembre.
Brevi istanti di felicità svaniscono
sotto una slavina di ossigeno, d’inverno una cornacchia
solitaria batte il becco sulla bianca distesa
gelata del lago, una coppia di picchi impaurita
dall’accetta cerca sotto la mia
finestra un pioppo abbastanza malato.
Una donna dall’aria assente scrive
lunghe lettere e la nostalgia si gonfia come
l’oppio; in un museo egizio un papiro
bruno è intriso della stessa
nostalgia, più antica di alcuni
millenni, incrollabile e intatta.
Le lettere d’amore vanno sempre
a finire nei musei, i curiosi sono più
ostinati degli innamorati. L’Ego avido
trangugia l’aria, la ragione si risveglia
dal sonno diurno, il nuotatore esce
dall’acqua. Una donna avvenente posa per
la felicità, gli uomini fingono di essere
più coraggiosi di quanto non siano veramente,
il museo egizio non cela le debolezze
umane. Esistere, per esistere ancora,
forse offrendosi in affitto
a una delle gelide stelle. E talvolta
beffarsi di lei che è fredda e viscida
come una rana nello stagno. La poesia cresce sulla
contraddizione, ma non la ricopre.
Venerdì Santo nei corridoi della metropolitana
Gli ebrei di varie religioni si incontrano
nei corridoi della metropolitana, rosario
sparpagliato da dita premurose.
Su loro dormono i preti dopo la cena di magro,
su loro piramidi di chiese e sinagoghe
si ergono come rocce portate da ghiacciai.
Ho ascoltato la Passione secondo Matteo
che tramuta in bellezza il dolore.
Ho letto Fuga di morte di Celan
che tramuta in bellezza il dolore.
Nei corridoi del metrò il dolore non si tramuta,
solo perdura, senza tregua.
Nella bellezza altrui
Solo nella bellezza altrui
vi è consolazione, nella musica
altrui e in versi stranieri.
Solo negli altri vi è salvezza,
anche se la solitudine avesse sapore
d’oppio. Non sono un inferno gli altri,
a guardarli il mattino, quando
la fronte è pulita, lavata dai sogni.
Per questo a lungo penso quale
parola usare: se lui o tu.
Ogni lui tradisce un tu, ma
in cambio nella poesia di un altro
è in fedele attesa un dialogo pacato.
I miei maestri
I miei maestri non sono infallibili.
Non sono Goethe che solo quando
in lontananza piangono i vulcani
non riesce a prender sonno, né Orazio
che scrive nella lingua degli dèi
e dei chierichetti. I miei maestri
mi chiedono consiglio. Avvolti
da morbidi cappotti gettati in fretta
sopra i sogni, all’alba, mentre un vento
freddo interroga gli uccelli, i miei
maestri parlano sussurrando.
Sento che la loro voce trema.
Ninnananna
Oggi non dormirai. Tanto è il chiarore alla finestra.
Sulla città s’innalzano i fuochi d’artificio.
Non dormirai, sono accadute troppe cose.
Su te vegliano i libri, in file ordinate.
A lungo penserai a ciò che è accaduto
e a ciò che non è stato. Oggi non dormirai.
Le tue palpebre rosa si ribelleranno,
avrai gli occhi arrossati, bruceranno,
e il cuore gonfio di ricordi.
Non dormirai. Si aprirà l’enciclopedia
e ne usciranno i vecchi poeti, vestiti con cura,
al riparo dal freddo. Si aprirà la memoria,
come un paracadute, con un sibili improvviso.
Si aprirà la memoria e tu non dormirai,
ti cullerai tra le nuvole, bersaglio
mobile e chiaro dei fuochi d’artificio.
Non dormirai mai più, troppo ti è stato
detto, troppo è accaduto.
Eppure ogni goccia di sangue potrebbe
scrivere la sua Iliade scarlatta.
Ogni alba potrebbe essere autrice
di cupe memorie. Non ti addormenterai
sotto la spessa coltre di tetti, solai, camini
che gettano verso l’alto una manciata di cenere.
Le notti in bianco fluttuano nel cielo silenziose
e i remi frusciano, calze di seta.
Uscirai nel parco e i rami
ti batteranno amichevolmente sulle spalle,
per cresimarti un’altra volta, come se non fossero
certi della tua promessa. Non dormirai.
Correrai per il parco deserto, diventerai
un’ombra, incontrerai altre ombre. Penserai
a qualcuno che non c’è più e a qualcuno
che vive con tale intensità che questa vita ai margini
si trasforma in amore. Sempre più luce
si affolla nella stanza. Oggi non dormirai.
Requiem per i viventi
La gioia dell’attimo trascorso presto si trasforma
in un nero cappuccio con fessure
per occhi, bocca, lingua e rimpianto. Rimpianti.
I viventi sono sempre occupati
a dire addio ai giorni che passano
simili a una pellicola
impressionata e mai sviluppata.
I viventi vivono così spensierati, noncuranti
che i morti ne strabiliano.
Ridono tristi ed esclamano, ah, ragazzi,
anche noi eravamo così. Proprio uguali.
Fiorivano le acacie.
Gli usignoli fischiavano tra i rami, sopra di noi.
Storia della solitudine
Si smorzano le voci degli uccelli.
La luna si mette in posa per la foto.
Luccicano le umide guance delle vie.
Il vento porta il profumo di campi verdi.
Lontano, in alto, un piccolo aeroplano
gioca come un delfino.
Autoritratto
Tra computer, matita e macchina da scrivere passa
metà della mia giornata. Col tempo farà mezzo secolo.
Abito in città straniere e talvolta parlo
con sconosciuti di cose indifferenti.
Ascolto molta musica: Bach, Mahler, Šostakovič, Chopin.
Vi trovo tre elementi, forza, debolezza, dolore.
Il quarto non ha nome.
Leggo i poeti, i vivi e i morti, da loro apprendo
costanza, fede e orgoglio. Cerco di capire
i grandi filosofi – ma di solito riesco
ad afferrare solo brandelli dei loro preziosi pensieri.
Amo fare lunghe passeggiate per le strade di Parigi
e guardare i miei simili, animati dalla gelosia,
dalla brama o dall’ira, osservare la moneta d’argento
che passa di mano in mano e lentamente perde
la sua forma rotonda (si usura il profilo dell’imperatore).
Accanto crescono gli alberi, e nulla esprimono,
a parte la verde, indifferente perfezione.
Sui campi volteggiano uccelli neri
che attendono pazienti come vedove spagnole.
Non sono più giovane, ma c’è ancora chi è più vecchio di me.
Amo il sonno profondo, quando non ci sono,
la corsa veloce in bicicletta per la campagna, quando i pioppi
e le case si dissolvono come cumuli in un cielo sereno.
Talvolta mi parlano i quadri nei musei
e allora l’ironia svanisce all’improvviso.
Adoro osservare il volto di mia moglie.
Ogni domenica telefono a mio padre.
Ogni due settimane incontro gli amici,
in questo modo restiamo fedeli gli uni agli altri.
Il mio paese si è liberato da un male. Vorrei
che a ciò seguisse ancora un’altra liberazione.
Potrei in ciò essere d’aiuto? Non so.
Non sono un vero figlio del mare,
come scrisse di sé Antonio Machado,
ma figlio dell’aria, della menta e del violoncello
e non tutte le strade del mondo alto
incrociano i sentieri della vita che, per ora,
mi appartiene.
La notte
Poiché sei solo morto,
senza dubbio ci ritroveremo.
Avrai sempre nove anni,
come quando ti vidi l’ultima volta,
su in montagna.
Era agosto, un tardo pomeriggio
maturo e così diafano
che le foglie dei ciliegi erano
immobili e i fili d’erba silenziosi.
Le more già nere si scioglievano
in bocca. Nel loro dolce succo si celava
il ricordo della primavera e dell’estate.
Di tempeste, di albe e del volo dell’allodola.
Correvi davanti a noi ridendo
e sapevi che dietro ti seguiva la nostra tenerezza,
leggera come il respiro dei dormienti.
D’un tratto sparisti tra le piante,
nell’ombra degli abeti. Era già sera
e freddo, all’ombra verde degli abeti.
E noi ancora illuminati dai raggi
del sole che calava chiedevamo
dov’eri, senza angoscia. Così vicini,
separati soltanto dai fischi degli uccelli assonnati
e dalle tende dei rami intrecciati.
La notte saliva, lentamente.
Passando per tunnel e corridoi,
la notte attraversava il giorno.
Mi vien da dire grazie. Per la poesia che trovo qui così generosa, per il suo canto che apre la botola del buio.
La poesia è la forma pura del bene, sa dire tutto il dolore possibile, lo sa sollevare fino a mostrarci la bellezza – l’amore – che sempre r esiste oltre.
Buon Anno, quindi.
E grazie davvero.
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Grazie a te – buon anno
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L’ha ribloggato su daisuzoku.
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