Che Mondadori sia un po’ dedita alla poesia prosastica, e che veda la poesia lirica non molto di buon occhio, è cosa ormai risaputa. Se ne parlava anche alla premiazione dell’ultimo Camaiore. In Alla luce del sole di Vincenzo Cerami (tra l’altro venuto a mancare da poco) però sembra che questa deriva preferenziale sia quasi un’autostrada che serve a dire poesia, più che a essere poesia. Inutile dire che non ho compreso (più che apprezzato) moltissimo questo volume. I riferimenti sono molti alla cultura classica, e molto colti. Chiude il libro una sorte di Ode all’Italia. Il tutto con un linguaggio da romanziere che non è solo la forma di un narratore, ma pare proprio il tono specifico di tale figura.
Nulla da dire, anzi, alcune parti sono molto belle. Solo non sempre mi risulta chiaro cosa vuol dire il poeta.
Non so dove sei in Roma
senza nomi delle vie e numeri civici.
Chiedo di te ai mercanti fuori dai templi.
Il tuo nome non basta.
E allora cito i tuoi capelli ricci
e le spiagge incantate nei tuoi occhi.
Beccheggiano gli alberi laggiù
e tu declami : «Lo vedi il vento?».
Oh estrosa Margherita mia,
mi manca ahimè, la fantasia.
Vedo solo
uno sperticar di rami.
Un tempo ai piani alti abitavano i poveri,
per via delle scale.
Gli ascensori hanno rovesciato i palazzi,
ma hanno anche ristabilito
il privilegio delle gerarchie.
La scienza mette le cose al loro posto.
Perchè non hai il rossore
– d’amore e di vergogna
d’ira e pudore –
nulla precede più il tuo sguardo,
e a nulla vale la figura che mostri.
Diafano corpo l’acquazzone bagna.
Non mi rimane che trasognare una lacrima
sul tuo madido volto.
Tanto basta alla vana speranza d’un letto
– che è pur sempre un sogno covato all’asciutto,
un vivido germoglio che mi infiamma le guance.
Tardo a parlarti perchè troppa è la distanza:
ti stupisse almeno il silenzio.
Il mio morire ti viene dietro
sotto i trionfi della bufera
nella finta primavera.
Vederti fare il Tabacco d’Harar
– profumo in polvere nell’alcol,
dopobarba d’Oriente
(novanta gradi come spilli pungenti) –
la bottiglia riempire del vino,
nasconderla di nascosto nella tua
credenza, dove chiusa dentro c’era
tra foto e lettere una pistola
che non sparò un colpo in tutta la tua vita,
m’accendeva di rubare un moto,
il nero zero di qualche tuo segreto
e già da un giorno prima di andare
per piste da ballo gli spilli pungenti
di quella maschia essenza assai vicino
al cazzo e sulle natiche mettevo… una
lavata generosa di chimera
per piacermi la speranza sola,
per giocare anch’io la mia partita
con la pistola in grembo e con le foto
con lettere mie e un mio segreto
sapere cosa dire e cosa fare.
Quella mani che hanno toccato sempre
cose inutili (pur così attaccate
all’utilità da far pena e paura),
che m’abbassavano i capelli dritti
in testa, mi sentivano la febbre,
m’offrivano il gelato la domenica…
quelle mani che mi hanno sfiorato
con scappellotti di maestro,
dovevano accompagnare la tua vita.
L’utilità accidiosa e inerte
ch’esse cercavano (incollate com’erano
al niente di niente), per una congiura oscura
ci rigettava nel mondo degli afflitti,
svuotava i gesti del loro senno
– un agitarsi vano e solerte.
Eravamo santini conservati
sul tavolo sotto la calamita
davanti alle nostre braccia conserte.
Imbottito e pieno come un cuscino
(il volto morente è teso e duro, e sale
è cosparso sul filo di barba), gli occhi
in cui leggevo la nostra vecchiezza
di vecchietti imberbi tra cose sempre
vecchie, tra l’umido e l’odor d’urina
dell’armadio aperto alla miseria,
occhi di una carne senza pensiero,
mesti, igienici e al silenzio abituati
e al dolore da quando bambino
tu e io uguali sempre nello sguardo,
erano vivi fino a morire di stanchezza
dentro una cucina (ch’era tutto il nostro decoro)
dove solo passava il tempo tra un pranzo
e una cena, al tichettio dell’orologio.
Immobile è stata dunque
la vita in te… in noi.
Adesso non ricordo più niente
del bene che mi hai fatto.
Ricordo solo il male.
Guida della mia vita,
maestro d’una scuola
che seppure eroicamente
ti ha fatto morire.
Non in me
non in lei
dove ancora vivi.
Non voglio che tu capisca
né che senta
non voglio che tu ricordi
né pensieri
legati a me ti leghino.
Condivido la tua – diciamo così – perplessità. Sotto un tono dimesso a volte si celano meraviglie. Qui sollevi le parole e sotto… non c’è proprio niente.
G
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Purtroppo stavolta caro, pur cercando d’essere buoni e con il grandissimo rispetto che si deve a una persona appena dipartita, devo ammettere che sono d’accordo con te – in realtà però la questione si sposta su un altro versante: la poesia prosastica, o la prosa spezzata in versi. In questi testi è chiaro che il concetto di prosa non entra solo nella forma ma anche nel contenuto. A Mondadori questo piace moltissimo. A noi?
voglio riportare il link di questa bellissima poesia di Guido Cupani, per chi mi legge:
http://guidoq.wordpress.com/2013/12/12/primo-pomeriggio/
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Di fronte alla poesia è sempre necessaria una misura di perplessità, o meglio una attenzione doverosa per attribuire al testo valore poetico vero e non il valore che emerge da deferenza verso l’autore o da qualche cliché declinato dalla simpatia dell’editore-demiurgo.
Io mi trovo bene tra certi lirici che “sono”, non “fanno” Poesia: se forma e contenuto si sostanziano dell’essenza, avvengono le nozze alchemiche. Così, nella fusione, emerge quello che al sentire immediato si avverte come poesia, e all’esame del critico trova l’analitica conferma.
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