Una delle cose più belle della poesia è che ha sempre un suo tempo. Privilegiato. Versi che in un dato periodo paiono blandi e insignificanti in un altro momento acquisiscono sfumature e significati di cui prima era impossibile accorgersi.
Così mi è capitato con Machado. L’avevo letto e non ne avevo trovato soddisfazione. Soluzione. Oggi però, dopo una giornata particolarmente intensa, alla loro rilettura ne ho come percepita la malinconia. Machado sa essere vero e doloroso. Timido e ritroso quanto combattivo e pronto ad alzare la bandiera della sua posizione. Posizione politica, posizione sentimentale, posizione esistenziale. Di fronte a certa bellezza Machado non dimentica la presenza/compresenza/convivenza della fine, della disperazione. Che però non è mai completamente preclusiva perchè la vita non mancherà al convegno.
Vi è una solitudine al fondo di Machado, che probabilmente è anche il motore ispirante dei suoi versi. Dove bellezza e dolore non si scindono mai completamente un po’ come in Von Sacher Masoch che chiude il suo meraviglioso Venere in pelliccia dicendo: nessuno mi convincerà più che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio.
Questa linea di congiunzione tra uomo e Dio trova in Machado però una soluzione tanto umana quanto veloce: la preghiera. Preghiera non per fede ma per solitudine. Un po’ come l’amore che è sempre nostalgia, distanza.
Vi è una sorta di feroce timidezza in Machado, una ritrosia che pretende solitudine per cantarla con simbolismo ed energia. Machado a me pare quasi una sospensione volontaria, una aspettativa che in realtà non attende nulla.
Ma più di tutto Machado è la poesia che si lascia scoprire quando si è pronti alla sua umanità, alla sua disperata bellezza.
La piazza e gli aranci accesi
con i frutti rotondi e ridenti.
Un tumulto di piccoli scolari
che, uscendo in disordine di scuola,
empiono l’aria della piazza in ombra
con il clamore delle voci nuove.
Allegria infantile nei cantucci
delle città morte!…
qualcosa di noi, di ieri, vediamo
vagare ancora in queste vecchie strade!
Alla deserta piazza
conduce un labirinto di stradine.
Da un lato, la vecchia scura muraglia
di una chiesa in rovina;
da un altro, il bianchiccio muro di cinta
di un giardino di palme edi cipressi;
di fronte a me la casa,
ed in essa la grata
davanti al vetro dove lieve sfuma
la sua figura dolce e sorridente.
Me ne andrò via. Non voglio
chiamarti alla finestra… Primavera
viene – la veste bianca
fluttua nell’aria della piazza morta –;
dei tuoi roseti… Desidero vederla…
Io vado sognando strade
nella sera. Le colline
dorate, i verdi pini,
le querce arse di polvere!…
Dove finirà la strada?
Vado cantando, viandante
al limite del sentiero…
– Sta per calare la sera –
«Dentro il cuore avevo
la spina di una passione:
riuscii a strapparla un giorno:
non sento più il mio cuore.»
Tutta la campagna resta
meditando, muta e buia,
un istante. Soffia il vento
tra quei pioppi del fiume.
Sempre più scura è la sera;
e la strada che serpeggia
e biancheggia debolmente
si fa oscura e scompare.
Torna a gemere il mio canto:
«Acuta spina dorata,
oh, potessi io sentirti
piantata dentro il cuore».
La strada in ombra. Le alte case nascondono
il sole che muore; echi di luce sui balconi.
Non vedi, nell’incanto del belvedere in fiore,
il rosato ovale di un volto conosciuto?
L’immagine, dietro il vetro in un riflesso incerto,
appare o sfuma come antico dagherrotipo.
Risuona in strada solo il rumore del tuo passo;
si spengono lentamente gli echi del tramonto.
Che angoscia dolorosa e grave sul cuore! È lei?
Non può essere… Cammina… Nell’azzurro la stella.
Sempre fuggitiva e sempre
vicino a me, in manto nero
mal coperta la sdegnosa
linea del pallido volto.
Non so dove vai, né dove
la tua vergine bellezza
cerca un letto nella notte.
Non so che sogni serrano
le tue palpebre, o chi tentò
il tuo letto inospitale.
…………..
Frena il passo, bellezza
sdegnosa, frena il passo…
Vorrei baciare l’amaro,
il fiore delle tue labbra.
Il sole è un globo di fuoco,
la luna è un disco morato.
Una bianca colomba si posa
sull’alto cipresso solitario.
Le aiole di mirti sembrano
di vizzo velluto impolverato.
Il giardino e la tranquilla sera!
L’acqua suona alla fonte di marmo.
Nei tuoi occhi arde un mistero, vergine
altera, mia compagna.
Non so se è odio o amore la luce
continua della tua nera faretra.
Tu verrai con me finchè proietti ombra
il corpo e ci sia rena sui sandali.
– La sete o l’acqua sei sulla mia strada?
Dimmi, vergine altera, mia compagna.
A lato del sentiero ci sediamo un giorno.
La nostra vita è tempo ormai, e nostra sola pena
sono i disperati atteggiamenti che assumiamo
nell’attesa… Ma Lei non mancherà al convegno.
Il poeta desiderò da solo ricordare,
le ondulazioni amate, la luce dei capelli
che egli nei suoi versi chiamava onde bionde.
Lesse… Uccide lo scritto: non li ricordava più…
E un giorno – come tanti –, aspirando aromi
di rosa che si apriva nel roseto, divampò
come una fiamma luce là da quei capelli
che egli chiamava nei suoi madrigali onde bionde,
divampò, perchè eguale aroma ebbero quelli…
E se ne andò in silenzio per piangere da solo.
S’è addormentato il mio cuore?
Alveari dei miei sogni,
niente più lavoro? È secca
la noria del mio pensiero,
i secchielli sono vuoti,
nel girare, pieni d’ombra?
No, il mio cuore non dorme.
Se ne sta lì tutto sveglio.
Né dorme né sogna, osserva,
gli occhi chiari aperti,
segnali lontani, ascolta
in margine al gran silenzio.
Dall’uscio di un sogno mi chiamarono…
Era la buona voce, amata voce.
– Dimmi: verrai a vedere l’anima con me?…
Giunse al mio cuore una carezza.
– Sempre con te… Ed avanzai nel sogno
per una lunga e nuda galleria
sentendo il tocco della veste pura
e il pulsare dolce della mano amica.
Sera tranquilla, quasi
con anima serena,
per essere giovane, per esserlo
stato quando volle Dio,
per serbare alcune gioie… lontano,
e poter dolcemente ricordarle.
È una sera triste e ceneregnola,
disordinata, come la mia anima;
è questa vecchia angoscia
che ospita la solita ipocondria.
La causa di questa angoscia non riesco
a capirla neanche vagamente:
però ricordo e, ricordando, dico:
– Si, ero bambino, e tu la mia compagna.
Non è vero, dolore, io ti conosco,
tu sei nostalgia di vita buona
e solitudine di cuore oscuro,
di nave senza naufragio o rotta.
Come cane abbandonato che non ha
traccia né olfatto e vaga
per le strade, senza una meta, come
il bimbo che la notte di una festa
si perde tra la gente
e l’aria polverosa e le candele
sfavillanti, attonito, ed adombra
il suo cuore di musica e di pena,
così vado io, ubriaco, malinconico,
chitarrista lunatico, poeta,
e pover uomo in sogno,
sempre cercando Dio dentro la nebbia.
Signore, mi hai strappato quello che più amavo.
Senti ancora, Dio mio, il mio cuore che chiama.
Agì la tua volontà contro la mia, Signore.
Signore, siamo ormai soli il mio cuore e il mare.
complimenti per questa meravigliosa recensione, scritta peralto molto bene. Ho conosciuto da pochissimo questo poeta, che trovo fantastico nella sua malinconica desolazione.
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