Le poesie di Paul Celan che presento sono tratte da Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia). Giuseppe Bevilacqua, in un vecchio libriccino Einaudi, lo ha definito con queste parole: A grandi linee si può disegnare con confini piuttosto netti una ripartizione in tre periodi (e, non si ha il coraggio di dirlo, ma vien fatto di pensare per una certa analogia a qualche grandissimo spirito: Hölderlin, Beethoven…): apprendistato ed elaborazione dei dati profondi della propria vocazione fino alla conquista di una sicura personalità artistica; svolgimento disteso ed esauriente dei temi centrali della propria ispirazione, il momento mediano e classico si potrebbe dire; infine il superamento di sé, la crisi che dischiude una dimensione apparentemente impraticabile nella quale l’artista avanza in solitudine, tra fallimento totale e raggiungimenti insondabili, con implicazioni meta-artistiche […] allora Von Schwelle zu Schwelle è il libro che conclude il primo periodo; e, nella sua ultima sezione, apre esplicitamente sul secondo.
In realtà, ma è facile dirlo col senno di poi, in queste poesie è già presente il presagio, opprimente, inconsapevole come d’uno che spii da una porta, del fallimento. Quasi una predestinazione.
Consapevoli che tutto ciò che accade in qualche modo deve accadere, senza possibilità di altre direzioni, e che a noi resta la responsabilità di trovarne o di darne un senso che non rendi inutile il fatto (compreso il nostro essere nel fatto), se poi l’accadimento sfocia in tragedia non possiamo far altro che misurarne i semi fin dalla sua nascita. Dai suoi esordi. Così da assumerne il dato umano. La sua importanza.
Dormono, nel rosso serale, i nomi:
ne desta uno
la tua notte
e lo guida, con bianchi bordoni cieca-
mente tastando il vallo a sud del cuore,
tra i pini:
un pino, di umana statura,
è in cammino verso la città dei vasai,
dove la pioggia cerca dimora
quale amica di un momento marino.
Nel blu
esso dice, promessa d’ombra, un nome d’albero,
e quello del tuo amore vi aggiunge
tutte le sue sillabe.
Sette ore nella notte, sette anni di veglia:
giocando con asce
tu giaci nell’ombra di cadaveri eretti
– oh tronchi che tu non abbatti! –
ed hai a testa lo sfarzo del voluto silenzio,
ai piedi il ciarpame delle parole:
e giaci così e giochi con asce
finchè tu al pari di queste sfavilli.
Ciocca, che non intrecciai, che lasciai al vento,
che si fece bianca per il suo andare e venire,
che si staccò dalla fronte da me sfiorata
nell’anno delle fronti -:
questa è una parola che si muove
per amor di vedretta,
una parola che affisò lo sguardo alle nevi,
quando io, recinto da un’estate di occhi,
scordai il sopracciglio che tu spiegavi sopra di me,
una parola che mi evitò
quando il labbro mi sanguinava di linguaggio.
Questa è una parola che si aggirava alle parole,
una parola sul modello del silenzio,
recinta da cespugli di pervinca e di afflizione.
Qui calano giù le lontananze,
e tu,
un fioccoso astro di capelli,
qui scendi come neve
fino a toccare la terrosa bocca.
Con lo sguardo nello sguardo, nel freddo
lasciaci fare questo ancora:
respirando
tessere insieme il velo
che ci nasconde l’uno all’altra,
quando la sera s’appresta a stimare
quanto ancora è lontana,
da ogni figura che essa si dà,
ogni figura che a noi si presta.
Riunito è tutto ciò che vedemmo,
a prender congedo da te e da me:
il mare, che scagliò notti alla nostra spiaggia,
la sabbia, che con noi l’attraversò di volo,
l’erica rugginosa lassù,
tra cui ci accade il mondo.
Di sbalzato oro, come
tu mi comandasti, madre,
ho formato il candeliere da cui
essa sale fino a me tenebrando
frammezzo ad ore scheggiate:
del tuo esser morta,
la figlia.
Ardita di figura,
un’ombra sottile, con occhi di mandorla,
bocca e sesso cui danzano attorno
sciami di sonno,
essa sfugge all’oro beante e si libra,
sale su, fino
al discrimine del Nunc.
Con labbra
velate di notte
io dico la benedizione:
Nel nome dei Tre
che tra loro si battono, finchè
il cielo si tuffa nella fossa degli affetti,
nel nome dei Tre i cui anelli
mi brillano al d ito, ogni volta
che agli alberi nell’abisso sciolgo le chiome,
sicchè il Profondo stormisce di più
cospicuo flutto -,
nel nome dei primo dei Tre,
che levò il suo grido,
quando fu chiamato a vivere là
dove la sua parola era stata prima di lui,
nel nome del secondo, che stette
a guardare piangendo,
nel nome del terzo, che bianche pietre
ammucchia nel mezzo, –
io ti assolvo
dall’Amen che ci assorda,
dalla fredda luce che lo circonda,
là dove penetra eccelso nel mare,
là dove la colomba, la grigia,
beccuzza i nomi
al di qua e al di là del morire:
tu resti, tu resti, tu resti
creatura di una morta,
consacrata al no del mio rimpianto,
coniugata ad una fenditura del tempo,
al cui cospetto mi guidò la parola
di mia madre,
affinchè un’unica volta
vacilli la mano
che da sempre mi afferra il cuore.
Cero accanto a cero, barlume a barlume,
luce accanto a luce.
E, frammezzo, codesto: un occhio
spaiato e serrato,
orlando di ciglia l’ora tarda che scese
senza esser la sera
E, l’Estraneo, davanti, di cui sei ospite qui:
il cardo opaco di che il buio
fa dono ai suoi,
da lontano,
per non essere obliato.
E codesta cosa ancora, persa nella sordità:
la bocca,
impietrita, mordente le pietre,
reclamata dal mare che il suo ghiaccio
rotolando innalza negli anni.
E i bei capelli che arruffasti, quelli
che ora arruffi:
qual pettine
ti alliscia nuovamente, i bei capelli?
Qual pettine e in quale
mano?
E le pietre che ammucchiasti,
che ancora ammucchi:
le loro ombre, verso dove
e di quanto si stendono?
E il vento che su di esse spira,
e il vento:
una ne carpisce, di quelle ombre,
e quella ti assegna che a te s’addice?
Tu vivi presso di me, uguale a me:
come un sasso
nella guancia scavata della notte.
Oh questa china, amore,
dove senza posa, pei rigagnoli,
come sassi,
rotoliamo.
Più e più rotondi.
Più simili. Più estranei.
Oh quest’occhio ebbro,
che in questi stessi luoghi va errando
e su di noi insieme posa
talvolta lo sguardo e si stupisce.
Lo amo come vivesse, lo piango come fosse appena andato via, lo credo in guerra, e che ritorni… Un lamento . Una preghiera per Lui
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