2 dicembre
Questa sequenza di Patrizia Valduga tratta da Requiem (Einaudi 2002) può ben dirsi un caso esemplificativo della poetica dell’autrice. Una sequenza di 2 dicembre dal 1992 al 2001 con un senso religioso e cupo, una pietà cercata (o meglio invocata) racchiusa in rigidità formale (ottave, rime). La rigidità inoltre sa scendere all’interno del senso della poesia abbassandone in chiusa il tono verso un non-sense che è angoscia, continua costruzione e decostruzione come bene viene detto in nota. In realtà le rime sono continuamente presenti e cesellate nella regolarità dei versi, ma solo in chiusura se ne sente la potente semplicità che tutta sottolinea la malattia della poetessa matta di un sogno che non vuol di niente.
Ah Signore pietà, Cristo pietà,
per quest’anno di vita irredimita,
del suo sangue nel mio sangue,pietà,
della carne nella terra incarnita
fino a ansimare, per pietà, pietà!,
che vivo la sua vita seppellita,
che vivo inutilmente e inutilmente,
e la parola mi si perde o mente.
Ah padre mio, non faccio che tremare,
e stare dentro me col mio dolore,
piangermi in te, piangermi in te e tremare.
Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore,
fammi uscire da me, fammi trovare
favole di pietà, versi d’amore…
Versi d’amore come ai miei vent’anni!
Padre, il mio cuore compie oggi due anni.
Oh, prima ch’io ritorni là con te,
fammi avere qualcosa da portare,
un piccolo qualcosa dentro me,
e non quest’ansia sola, e questo ansare.
Fa’ che possa portarti dentro me
qualcosa perchè possa ritornare
e dirti, padre: «Vedi che ho vissuto:
in me il tuo cuore, no, non si è perduto».
«Patrizia, adesso basta! Per favore.
Vuoi farla eterna quella stomatite?
E la tua forza d’animo? Di cuore?…
Basta con quelle ghiandole impazzite!
Non ricordi? È d’altro che si muore…
Adesso vivile le nostre vite!»
Papà, dimmelo ancora,è così vero…
Ridimmelo, ravvivami al mio vero.
Ecco, papà, io non so dare un nome
a questa nebbia che mi fuma intorno
e che mi nasce dentro e non so come
e mi impedisce la luce del giorno,
e senza nome vivo nel tuo nome,
nella tua luce che non fa più giorno
dal millenovecentonovantuno,
dal due dicembre, al sole di Belluno.
Oh! Angeli del tempo, vi scongiuro,
ridategli il suo volto e la sua voce,
ditegli di venire al limbo oscuro
dove fluisco verso la mia foce;
che senta la sua voce, vi scongiuro,
senza più tempo, senza terra e croce,
che non mi senta più così insensata
quando la mente si sarà calmata.
Papà, ho la rettocolite ulcerosa:
intercedi, proteggi, benedici.
Sanguino sempre, sempre più paurosa
del mio sangue, di tutto… Benedici.
E nella mente dove c’è ogni cosa
tornerò a quando eravamo felici,
stringerò la tua mano che conduce
al coraggio, e nel regno della luce.
Sono poveri versi di preghiera,
reliquia miserabile e funesta,
per sposare quell’alba alla mia sera
nella mia testa, in quello che mi resta
della testa, perchè ogni gioia vera
è stata solo dentro la mia testa,
e scrivo sangue invece di parole:
ritorna, alba di viole. Alba di viole!
Se ti avessi ascoltato quella volta,
io cocciuta, cocciuta ed incosciente,
la giovinezza che mi è stata tolta
me la sarei goduta corpo e mente.
Ma la maturità perchè mi è tolta?
Papà, io vivo vergognosamente
vecchia e malata e sempre adolescente
matta di un sogno che non vuol dir niente.
Palpito d’ali al limite del volo,
tu, palpito di piume tutto ali,
per questo giorno, per un giorno solo,
cavami via da questi criminali,
portami un po’ di giorno, un senso solo
in questa notte postuma di mali,
ché neanche la speranza mi è concessa,
ché vivo come ai piedi di me stessa.