Azzurro elementare – Pierluigi Cappello

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Piccola nota su Azzurro elementare

Pierluigi Cappello – (Bur 2013)




Inniò


E cuan’ che tu sarâs già muart, ma muart

chês tantis voltis dentri une vite

ch’a si à di murî, alore slargje ben i tiei vôi

a la cjavece dal sium

e clame cun te ogni bielece ch’a ti bisugne

e intal rispîr di chel mont, met dentri il to:


cjamine pûr cun pîts lizêre e sporcs

come chei di chel che sivilant al va par strade

ma tant che cjaminant su un fîl di lame fine

e al indulà che tu i domandis

lui, ridint, a ti rispuint

cence principi o pinsîr di fin:

«Jo? Jo o voi discôlç viers inniò»,

i siei vôi il celest, piturât di un bambin.


In nessun dove

E quando tu sarai già morto, ma morto quelle tante volte dentro una vita che si deve morire, allora allarga bene i tuoi occhi alla cavezza del sogno e chiama con te ogni bellezza di cui hai bisogno e nel respiro di quel mondo, metti dentro il tuo: cammina pure con piedi leggeri e sporchi come quelli di chi fischiettando va per strada, ma come camminando su un filo di lama sottile, e al dove vai che tu gli chiedi, lui, sorridendo, ti risponde senza inizio o pensiero di fine: «Io? Io vado scalzo verso inniò», i suoi occhi il celeste, pitturato da un bambino.


Inniò è un avverbio friulano ormai caduto in disuso, formato da una preposizione e da una negazione. Significa precisamente in nessun luogo, da nessuna parte (dalle note dell’autore).




Come molti già sanno Pierluigi Cappello è considerato uno dei massimi poeti contemporanei, vincitore di tutti i premi che contano (Montale, Bagutta Opera Prima, Viareggio, De Sica) e al quale l’Università di Udine ha lo scorso settemnre conferito la Laurea Honoris Causa. Molti sanno anche che, paralizzato da un incidente in moto all’età di sedici anni, vive in condizioni economicamente precarie e per lui è stata chiesta l’applicazione della legge Bacchelli (se non erro nel 2011, ma potrei sbagliare) per meriti artistici senza a tutt’oggi alcun riscontro dallo Stato Italiano. Chi è friulano ricorda infatti la polemica alcune settimane fa sulla nomina (pur condivisibilissima) di quattro nuovi senatori a vita a fronte del silenzio ancora ostinato verso il poeta Cappello.

Poeta che bisogna dire mette un po’ tutti d’accordo, il che è già raro nel panorama letterario odierno. Chiunque legga i suoi testi trova conferma di una poesia alta, viva, pregna di pathos pur nella sua moderazione. Non una poesia di polemica, ma di trascrizione di sé senza tragedie, della propria terra ma senza gridare. Francesca Archibugi, prefatrice del volume Azzurro elementare (Bur 2013, contenente le poesie dal 1992 al 2010, o come viene detto in nota i testi delle due raccolte Crocetti del 2006 e 2010: Assetto di volo e Mandate a dire all’imperatore), dice:

Non sento in Pierluigi Cappello quella navigata peripezia che mi infastidisce, lo sfoggio di miracolo linguistico, ma la bravura sì, la capacità artigianale sì, la conoscenza approfondita della storia della poesia sì. Condizio sine qua non, certo, ma mai sufficiente. È tutto il resto che incanta.

Le sue parole non sono dirette solo a chi sta leggendo; la voce tenta di stringere una relazione spietata con il proprio io, l’io narrante. […]

Il suo io è la finestra stessa. Coincidono. Dai suoi versi ci affacciamo per vedere un mondo popolato da un quarto stato che emerge dalle gole delle montagne friulane in un commovente e goffo cammino fiducioso verso il futuro. […]

Le pagine sprizzano una fortissima tensione etica, è esattamente il nostro paese che emerge, nello stupro che gli è stato compiuto. Nemmeno per un momento si sente una protesi ideologica, o una didascalia, o una nostalgia passatista.

È tutto poesia, eppure è tutto racconto.

Con l’allegria dei vinti.


Ma non voglio qui parlare del solito Cappello, poeta friulano che scrive dei cambiamenti della propria terra, della sua vita, del presente sempre un po’ agro. Voglio invece parlare della poesia di Pierluigi Cappello, di quei frammenti altissimi che si trovano tra un testo e l’altro e che in qualche modo fanno dei suoi testi (almeno a parer mio) un insieme di moltissime micropoesie.

Oggi ti consegno un foglio: questo è il pieno, il vuoto. Chiusa del testo IX di Il me Donzel è la traduzione dal dialetto dello stesso autore, che in nota sottolinea quanto la traduzione (in effetti senza divisioni in rime) assomigli più a una versione interlineare dei testi, quasi un glossario, più che a una traduzione. Il foglio stesso è l’autore, e il rapporto dell’autore col tu al quale si sta riferendo.

Il cuore trema come un ramo scalzo. Testo immediatamente successivo al precedente. Un’immagine che mi sembra densa di genialità.

Un seno che fa nuvola / nella camicetta bianca. Testo D’estate che disegna un’immagine delicata quanto concreta. Efficacissima.

E non c’è distanza che non sia desiderare. Da Le notti calde e gli alisei più che un’immagine è un concetto. Un concetto fondo.

Che senza terra e senza cielo si è qui, tremando al vivere, come fa l’aria dopo uno sparo. Chiusa di Scrivi lune è un accenno all’esistenza con una chiusa tremenda eppure dolcissima. Personalmente mi viene in mente L’atomo opaco del male pascoliniano.

Sono senza aggettivi e felice, amore, / triste come un desiderio assolto. Da un testo del 2003, Una cena, che a mio avviso restituisce un Cappello eccelso quando scrive d’amore.


Ed è proprio il Pierluigi Cappello scrittore di poesie d’amore che devo ammettere più mi piace, oltre forse il concetto (che credo riduttivo) di poeta strettamente friulano. Perchè se è vero che l’autore è più giovane vocazione poetica ma già con le stimmate della propria genesi dolorosa e necessaria, Pier Luigi Cappello misura, in un doppio registro emotivo-linguistico, italiano e friulano, il suo sentimento del tempo e del recupero memoriale (dalla motivazioni del premio Viareggio), è anche vero che il poeta non si limita al recupero memoriale ma trascrive spesso un quotidiano lirico, un registro emotivo delicatissimo quanto colto, un tu che si fa soggetto e si amalgama con la metafora della vita stessa.




Alcune poesie:




Cîr par lampâ lampâ pal cîl blancjìis

e torne achì, che piel plui piel lumere

un nassi al fâs e un cressi di lumere

dai tiei vôi in amôr. Fûr al è frêt

il cjalt dentri inte’ pleis da la cuvierte

il clip la piel ch’o cor da la tô cuesse

sgrisul i dêts, sofli sul bosc adôr

da la tô fuesse, cîl Domine al è

il cîl davierte de tô cu la mê bocje

sbissule rosse flamisele ros

florisel te fumantere d’unvier

la tô lenghe ch’o vîf.


Cerca, per accenderti, accendere nel cielo chiarori e torna qui, che pelle più pelle lumiera, fa dei tuoi occhi in amore un nascere e un crescere di lumiera. Fuori è il freddo, il caldo è dentro le pieghe della coperta, il tepore la pelle che corro della tua coscia, brivido le dita, soffio sul bosco attorno alla tua fossa, cielo Domine è il cielo aperto della tua con la mia bocca, serpentella rossa, fiammicella, rosso fioricello dentro la bruma d’inverno la tua lingua che vivo.








Tô la mê bocje amôr sul to savôr

la mê vergogne di vivi cumò

ch’o ti tocji ch’o ti sflori e o ti cor

come inte gnot un gjat adôr dai mûrs;

jo o ti cor comeun gjat adôr dai mûrs

siben ch’o sai che intai conts di amôr

doi mancul un mancul di zeri al fâs

e un plui un un al varès di fâ,

siben che e reste cumò che tu vâs

la mê cerce di te su la tô piel

su la mê il risinâ dai tiei cjavei


e je dentri te tô la mê pôre

di smenteâmi di me.


Tua la mia bocca, amore, sul tuo sapore, la mia vergogna di vivere adesso che ti tocco che ti sfioro e ti corro, come un gatto nela notte rade i muri; io ti corro come un gatto rade i muri, sebbene sappia che nei calcoli d’amore due uno dia meno di zero e uno più uno dovrebbe dare uno, benchè resti, adesso che vai, il mio cercarti sulla tua pelle, sulla mia lo stillare dei tuoi capelli, è dentro la tua la mia paura di smemorarmi di me.








La tô man, lassile lâ su la mê

piel, vien donje che il ben ch’al nas viodinti

viondinti al cres tal lustri dai tiei vôi

tal cûr dai miei vôi, amôr,

ven chì siben che umôr

amôr no sai ce ch’al confont,

i cjavêi ch’a ti petenin l’arc da la schene nude

come la veretât cence vergogne

o il jessiti achì

vite in vite che s’imburìs in vite

cjâf cun cjâf cjavêl cun cjavêl

cjar sanc semence par te

maduride d’amôr cul madurî de lune

cressude in me par madurî l’amôr;


ven chì

ch’o volarès par te la peraule plui alte

alte in chest maltimp d’unvier

come il prin crît de primevere crude

ma tu ven chì distès, la veretât e je intai fruts,

cjar incandive.


La tua mano, lasciala andare sulla mia pelle, vieni vicino, ché il bene che nasce vedendoti, vedendoti cresce nello smalto dei tuoi occhi, nel cuore dei miei occhi, amore, vieni qui, sebbene umore, amore, non so cosa confonda, i capelli che ti pettinano l’arco della schiena nuda come la verità senza vergogna o l’esserti qui, vita in vita che si arroventa in vita, testa con testa, capello con capello, carne sangue seme per te maturata d’amore col maturare della luna, cresciuta in me per maturare l’amore; vieni qui, che io vorrei per te la parola più alta, alta in questo maltempo d’inverno come il primo grido della primavera cruda, ma tu vieni qui lo stesso, la verità è dentro i bambini, carne che arde.








Front a front, amôr, doi cjâfs, il to e il gno:

il gno distirât par cjalâti miôr

il to, plui alt, che a cjalâmi jo vîot

l’arc dal to cei distirâsi in pâs;

difûr dal cuadri dal balcon

il vert des jerbis strafondis d’Avrîl:

dute une primevere tasude

ch’o tas par fâti plui biele.

Dentri il cercli di vert dai tiei vôi

di strac ch’al jere plui font

plui penç al nassarà il mont.


Fronte a fronte, amore, due teste, la tua e la mia: la mia distesa per guardarti meglio, la tua, più alta, che a guardarmi vedo l’arco del tuo ciglio distendersi in pace; fuori del quadro della finestra il verde delle erbe grondanti d’aprile: tutta una primavera taciuta che taccio per farti più bella. Dentro il cerchio di verde dei tuoi occhi, da stanco che era, più profondo più denso nascerà il mondo.








Mondimi me, che par volê florî

di flôr in flôr florint soi deventât

ramaç no in flôr nì niçulât da l’aiar:

libare tu, Domine mê, la mê

libertât, metimi dentri tai vôi

la lûs tenare e garbe de to piel di vencjâr:

l’amôr al è cuant che i miei deits

a tocjâti a deventin

la ponte dai tiei.


Mondami, che per voler fiorire di fiore in fiore, fiorendo sono diventato un ramo senza fiore, né mosso dal vento: libera tu, Domine, la mia libertà, mettimi dentro gli occhi la luce tenera e aspra della tua pelle di vinco: l’amore è quando le mie dita a toccarti diventano la punta delle tue.








O cerci l’aiar che tu spetenis cu li’ mans

chest dâti e cjolti lusinte tal scûr

di ca la fan, di là il pan da la mê fan

tu floride tal mieç

e flôr la piere ch’e sflorìs in me;

o cerci chest aiar e al bastarès

se par vivi la pôre di vivi no fos

mancul lontane di te.


Assaggio l’aria che spettini con le mani, questo darti e toglieri lucente nel buio, di qua la fame, di là il pane della mia fame, tu fiorita nel mezzo e fiore la pietra che sfiorisce in me; assaggio quest’aria e basterebbe se per vivere la paura di vivere non fosse meno lontana di te.








Tu tu mi cjalis, soriane, cun vôi

di maràngule ch’ rît, dal balcon

a la intimele lûs, fuarfe ch’e stoche

siums dal to zardin di siums, l’amôr

ch’al cor inmò pe’ pleis da la cuvierte

e jo dongje ch’o ten la vite dentri

come piere ch’e ten dentri il soreli

e intal cjalâti «vîf» tu tu mi disis

«no sta studâlu, vîf», alore vivi

cun debil flât soflâ cuintri stravinte

ma difûr dulà ch’a si vîf il vint

ch’al mene grande sium dal sium, la lum

ch’al bastarès bussâsi achì tal scûr

cjalcjant une volte lavri cun lavri

dant come dâsi chel ch’a nol pues

jessi plui dât di nô, ch’a nol si pues;

la lum, s’e nas e scople mûrs, cuvierts

di me, di te, e rimâ scjele cun stele

piçul cul grant si podarès achì

cumò, parceche o sin chì, nô,

butâts jù nûts di lassù, nassûts

inte bocje dal scûr.


Tu mi guardi, soriana, con occhi di gatta che sorride, dalla finestra alla federa luce, forbice che spicca sogni dal tuo giardino di sogni, l’amore che scorre ancora per le pieghe della coperta, e io accanto che tengo la mia vita dentro come pietra che tiene dentro il sole e nel guardarti «vivi» mi dici «non spegnerlo, vivi», allora vivere, con debole fiato soffiare contro la bufera, ma fuori dove si vive il vento, il vento sull’asfalto e sui gerani, vento che porta un grande sonno nel sogno, il lume, che basterebbe baciarti qui nel buio premendo una volta labbra contro labbra, dando come darsi quel che non può essere più dato di noi, che non si può; la luce, se nasce fa schiudere muri, coperchi di me, di te, e rimare scheggia con stella, piccolo con grande si potrebbe qui, ora, perchè siamo qui, noi, gettati nudi di lassù, nati dentro la bocca del buio.








Tra chel ch’al comence e chel ch’al finìs

scomençâ a finî par començâ a vivi.


Sul cei dai vôi crei nassiment d’unvier

il disdulî come fûc ch’a si distude.


Tu come che tu sês vignude lade:

come une muse vignude dal scûr.


Tra ciò che incomincia e ciò che finisce cominciare a finire per cominciare a vivere. Sul ciglio degli occhi nascita acerba d’inverno il disdolersi come fuoco che si spegne. Tu partita come sei venuta: come una faccia venuta dal buio.








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