Il sapere enciclopedico
Bene, devo ammetterlo. Dopo 35 anni (36 tra pochi giorni) sono andato a vedere la Biennale di Venezia. Esperienza importante, esperienza da fare. Almeno questa è l’impressione e l’emozione che si ha di fronte al baldacchino dove si acquistano i biglietti per entrare. Posto che mi occupo di tutt’altro e non di arte, e che volontariamente non ho che piccole tangenze (spesso anche molto criticate) con questo mondo che non mi appartiene, voglio comunque esprimere qualche impressione su quanto ho visto. E faccio un’ulteriore premessa: ho visitato solamente l’Arsenale e non i giardini, per cause di tempo. E per parlare della Biennale di Venezia voglio cominciare non dall’inizio, ma dalla fine. Dall’uscita dalla mostra.
Non ci voglio girare tanto attorno: un senso enorme di frustrazione. Di delusione. Un senso così enormemente totalizzante nell’anima da potersi definire quasi depressione. Prima di ritornare a uno stato minimamente positivo ci sono voluti 20 minuti di paesaggi veneziani e due spritz. Il titolo della Biennale è Il sapere enciclopedico ed entrando in Arsenale appunto si incontra questo progetto tanto ambizioso quanto utopico, quanto già letterariamente visitato. Certo l’opera non è del 2013, ma presentarla nel 2013 lascia un po’ perplessi. Anche se effettivamente, e questo va tutto a plauso del curatore, tutta la mostra gioca moltissimo su questa ambizione di raccogliere tutte le conoscenze in un unico luogo, reale o immaginario che sia. Ma qui nasce la prima perplessità, sopratutto a fronte delle prime foto che si incontrano. Belle foto questo è indubbio (come se fosse difficile fare una bella foto oggi), che ritraggono piante, capelli, usi e costumi. Ma poi la domanda che resta è: ma l’arte è informazione?
I foglietti critici, a dir la verità anche molto discreti, non si sprecano. E sono utilissimi per capire i motivi politici, le difficoltà compositive, tecniche. E sono talmente indispensabili da apparire manualetti d’istruzione. Al che nasce la seconda perplessità: ma l’arte per essere fruita ha bisogno del foglietto d’istruzioni?
Imponente l’uso di video che ben si lega al tema dominante di tutta la mostra. Il dato scientifico è onnipresente dentro le forme d’arte. C’è anche un po’ di sesso ogni tanto, quasi una pornografia nei disegnetti dei carcerati e in alcune tele iniziali dove s’ammucchiano corpi grotteschi e deformati. In un video poi una ragazza accenna a masturbarsi e paradossalmente è anche bella, così come è bella l’immagine degli addominali ben scolpiti di un ragazzo decisamente nudo. Poi arrivano, nel video, gli animali imbalsamati e la voce che incalza sincopata una storia dell’umanità in senso decisamente dark.
E di video in video, installazione dopo installazione, si arriva a un enorme ramo che ondeggia sul soffitto, metafora di impiccagioni varie. Ci sono molti giochi di luce, una piattaforma con l’acqua intorno, dei teschi e teste varie fatte coi libri (anche belli), qualche arredamento d’interni, qualche piccolo barlume qua e là, altri video, uno scheletro semitrasparente dove l’atto artistico coincide con la difficoltà di creare tecnicamente l’opera (e non è l’unica che gioca su questa difficoltà), ancora video, e si arriva dopo circa tre ore a chiudere l’esperienza dell’Arsenale della Biennale di Venezia appunto con un senso di enorme frustrazione. Questo è il non plus ultra dell’arte mondiale, e l’arte mondiale punta al grottesco, al violento, alla scienza come espediente per amplificare la violenza dell’impatto dell’opera.
L’arte mondiale punta alla relazione opera d’arte fruitore. Inevitabile, alla fine del primo spritz, pensare a Goya. Alla sua violenza, alla sua crudezza. Ma Goya ha una bellezza formale squisita, terribile ma squisita che in qualche modo ti comunica qualcosa. E quindi a metà del secondo spritz ecco un po’ la sintesi delle idee: questi artisti non comunicano nulla. Colpiscono, ma non dicono. E pare siano così impegnati a creare shock da dimenticare l’opera d’arte stessa che in questo modo non diventa altro che uno strumento per creare lo shock. E tutto questo ha una dimensione e levatura così mediocre (e tanto più mediocre quanto più alta è l’aspettativa che si concede alla Biennale) che appunto esci dall’Arsenale non solo vuoto, ma senza qualcosa di te stesso perchè l’Arsenale ti ha tolto il pavimento che ti aspettavi di trovare lasciando solamente cemento nudo. Frattaglie. L’opera d’arte non esiste più, ma esiste il prodotto emozionale che si viene a creare. L’attenzione scientifica è informativa oppure grottesca. Le ripetizioni non mancano e difficilmente possono essere giustificate come citazioni.
In realtà questo senso di frustrazione, di decadimento, va a tutto onore della Biennale. Perchè se questa è la tendenza dell’arte mondiale non possiamo non capire che è una fotografia artistica del sentire comune. L’arte lo è sempre. L’arte dice in un suo linguaggio ciò che tutti sentiamo e pensiamo. E in effetti non possiamo non registrare nella realtà un mondo grottesco, violento, spesso senza senso, che tende alla scienza ma per scoprirsi ancora più crudo. Alle porte di una probabile guerra in Siria, di gas che uccidono 400 bambini, di un neonato in america ucciso da una pallottola vagante, di un ragazzino di sei anni rapito in Cina e ritrovato mezz’ora dopo in un parco con gli occhi strappati e buttati lì accanto (ma senza cornee), tutto questo è evidente anche se forse non ci pensiamo. Un mondo frustrante, ripetitivo, vuoto, che ti toglie anche l’aspettativa, la speranza. Un mondo pieno di parole, che va spiegato, senza però che il mondo stesso dica nulla. In questa direzione l’uscita dalla Biennale sembrava una scoperta di un senso intimo di frustrazione che abbiamo vivendo. Una sorta di verità che rende grande la Biennale ma non i suoi artisti. Perchè la loro arte non è arte come il cibo non è cibo ma un insieme di tutto meno che il componente naturale. Perchè la loro arte punta al crudo e grottesco come la bellezza oggi è mediocrità.
L’ultima domanda, forse un tantino banalotta, che emerge è quindi sulla funzione dell’arte: testimonianza o al minimo costruzione? O forse, rigirando un po’ la questione sotto un’altra prospettiva: ma è veramente necessario fare dell’arte? Fare a tutti i costi un atto artistico? Perchè inevitabilmente l’impressione è che moltissime opere della Biennale fossero una volontà cerebrale di fare qualcosa. A tutti i costi. E da questo quindi una riflessione conseguente: è meglio dire qualcosa a tutti i costi (col rischio effettivo e realizzato di non dire nulla) che stare zitti? C’è forse un horror vacui nel silenzio?
Ovviamente parlo da profano dell’arte, da ignorante.